
Un’isola al largo delle coste croate. Un cartello piantato sulla riva. Una scritta ripetuta in svariate lingue: benvenuti a Goli Otok, l’isola della libertà.
E certo gli ignari turisti, approdati su quell’isoletta aspra, brulla, inospitale, per un breve periodo di vacanza, non potevano immaginare di star calpestando le orme di chi, pochi decenni prima, aveva sporcato quella bianchissima roccia del rosso del proprio sangue.
16.000 deportati, 446 morti. Per tortura ma soprattutto per sfinimento. Anticomunisti o comunisti troppo vicini a Stalin, ex partigiani, semplici oppositori politici del maresciallo Tito, che alle direttive di Stalin aveva rifiutato di aderire. Proprio lui, Tito, che in un campo di lavoro c’era stato, da prigioniero, ai tempi della sua militanza nell’esercito austro – ungarico, proprio lui che aveva combattuto gli orrori nazisti guidando con fierezza l’indomabile resistenza jugoslava verso la liberazione, chiudeva gli occhi fornendo il suo silenzioso assenso a quelle stesse ripugnanti procedure di annientamento a cui si era opposto.
Disumanizzazione. E’ questo il termine preciso utilizzato nello spettacolo “Goli otok, l’isola della libertà”, tratto dall’omonimo libro di Giacomo Scotti e proposto in questi giorni al Teatro della Cooperativa di Milano. Un progetto che porta la firma di due monumenti del teatro italiano, Renato Sarti e Elio De Capitani.
Disumanizzazione ovvero perdita della dimensione umana. Nella sua accezione fisica e morale. Un luogo, Goli Otok, dove non era concesso lavarsi, per mesi, dove era impossibile dormire, dove il digiuno forzato era pressoché totale. Dove nemmeno il suicidio era possibile. Dove l’unico modo per salvarti era rinnegare i tuoi ideali e dimostrare il tuo ripensamento denunciando e massacrando fino alla morte i tuoi compagni.
Un inferno che proseguiva anche dopo la detenzione. Se parlavi di Goli Otok eri morto. Se confidavi ad un amico di aver mantenuto le tue idee, eri morto. La vita quotidiana resa impossibile. Pedinamenti, controlli, insospettabili provocatori inviati a verificare le tue idee, magari nascondendosi dietro l’amichevole offerta di un bicchiere di vino impossibile da accettare. Chi metteva piede a Goli Otok, anche salvandosi la vita, moriva. Perdeva la sua essenza umana.
Non è facile raccontare a teatro questo abisso dell’anima, questo luogo in cui ogni uomo smette di essere uomo, sia egli dalla parte delle vittime o da quella dei carnefici. Bisogna compiere una scelta tra un’ipotetica missione estetica e una missione etica.
De Capitani e Sarti scelgono con decisione quest’ultima strada, rinunciando a qualunque tipo di orpello scenografico o scenotecnico per lasciar scorrere libero il racconto. Perché ogni parola ci arrivi nello stomaco, forte come le rocce di Goli Otok, perché ogni sillaba fluisca come quel sangue, perché la poetica elaborata e di alto livello stilistico del medico Aldo Juretich, il protagonista di questa vicenda (realmente vissuto e qui interpretato da De Capitani), ci arrivi intatta, con tutto il suo carico di terrore, di dolore ma anche di spiccata ironia. Un tassello fondamentale di questo racconto, l’ironia, che consente, nonostante le agghiaccianti tematiche trattate, di trascorrere un’ora e mezza senza mai un accenno di pesantezza o di noia, quasi senza accorgersene. Rapiti e scioccati da questa storia che racconta la Storia e facendolo ci aiuta a capire meglio i tempi che viviamo.
Si esce tra applausi scroscianti e meritatissimi, di fronte a un esempio lampante di Teatro Necessario. Le maiuscole non sono casuali.
Massimiliano Coralli
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