Recensione: “Verso Tebe”

Verso Tebe
foto Laila Pozzo

Dare un microfono ad una voce, significa donarle un tempio futurista, tributarle una fisicità definitiva, marcarne la carne fonetica, individua immediatamente uno stand up tragedian, aggancia il pubblico, lo coinvolge nell’ascolto di una parola mesmerizzante, di un’ipnosi eriksoniana, e basta un attimo alla platea per astrarsi dalla realtà della sala fassbinder dell’Elfo, e trovarsi ad un passo della Tebe antica.

E’ questa tutta la potente intuizione di Frongia e Bruni, la riscoperta della potenza di un racconto, di una drammaturgia che si arricchisce e si fortifica attraverso Seneca, Dryden, Hugo von Hoffmasthal, Mann, Cocteau, Durenmatt, Berkoff e tutti gli altri ragazzi del gruppo, perché Edipo canta una storia che seduce l’appetito di ascolto più della diva omerica. Il protagonista per tutta la storia combatte contro il proprio destino, ed al sangue dell’antica ferita dei suoi piedi si mischia con l’icore degli dei, il loro liquido vitale, che rimane come traccia della gragnola di pugni fatali, metafisici, che lasciano la sua voce offesa, tumefatta, anchilosata, segnata da una battaglia col destino devastante. Si sente distintamente l’odore degli dei in questo spettacolo, la loro presenza è intuita nel corpo e nella vocalità di un Edipo che stoicamente rimane in piedi, magari barcollante e piegato, fino all’ultima ripresa.

E le parole sono collocate visivamente all’interno di una battaglia dialettica, di un campo da gioco-scena in cui si gioca un’eterna partita a tennis, dove la pallina è fatta da fonemi, da tremendi servizi imprendibili per l’eroe, fino al definitivo gioco, set, partita. E’ un talking blues quello che ascolta lo spettatore, un incalzare incessante, sinuoso, di parole che scottano più delle verità, e ci si brucia le dita a tenerle fra le mani, è un liquido fonetico che si rovescia addosso, sono beniani schiaffi alla vita che bruciano a lungo sulle guance. Bastano quattro interpreti, un coro essenziale che si riverbera e si moltiplica nelle giacche appese, simulacro golcondiano, magrittiano, di una presenza umana, che, dopo la tempesta fatale della divinità, si prosciuga in un vestito, metonimia di un’esistenza in cui la carne viene masticata e ferita dagli dei.

L’atto stesso dell’ascoltare recupera una dimensione di sacralità, gli occhi sono idealmente chiusi come quelli di Tiresia, o quelli spenti volontariamente da Edipo, a vedere è l’orecchio, a costruirsi un paesaggio fonetico che entra fatalmente in risonanza con l’anima e con il ventre, con quell’abisso umano che Sofocle cominciò a scavare a beneficio del pubblico teatrale. E parola dopo parola ecco la folgorazione, la capacità di Edipo di condensare tutta l’umanità, e quanto pesa il suo passo nel portare sulle spalle non solo i peccati psicanalitici del mondo, ma la sfida imperitura dell’uomo che vuole vedere se stesso così intensamente fino a farsi sanguinare gli occhi.

Il protagonista porta in dote uno stupore ed insieme una determinazione che lo spingono a muoversi ostinatamente verso la verità, verso Tebe come recita il titolo, ma si tratta di un falso movimento, del percorso dell’antico cerchio di Dioniso, in cui ci si ritrova al punto di partenza della profezia dell’Oracolo. Già nell’etimo della parola destinare, c’è quella forza che si oppone alla dinamicità del personaggio, quello “stare” la fui fissità è accresciuta dal prefisso “de”. La lotta è fin dall’inizio impari, l’hybris umana contro la dike divina, il confronto tragico è tutto lì, nell’orgoglio umano, nel desiderio di superare i limiti impostigli, e la fatale vendetta divina, tuttavia in questa storia la predeterminazione metafisica va ancora oltre, gioca con l’uomo come il gatto fa con il topo, gli dà la speranza di crearsi un finale diverso, e poi gliela nega irridendo il suo cammino, che lo ha portato esattamente là dove ci si aspettava che dovesse andare. Ma non importa che abbia fallito, beckettianamente potrà fallire, fallire ancora, fallire meglio, potrà finalmente guardare il cielo per la prima volta, proprio quando si sarà negato la vista, farà esperienza del buio, e forse del paesaggio di libertà che sta appena dietro di esso.

E’ fatale che mullerianamente la storia non si accontenti di una semplice morale, e non si arresti qui, dove avrebbe voluto fissarla il medico viennese, e continui a muoversi a tentoni verso Colono, verso la platea che ne percepisce l’eco che perdura secolo dopo secolo, millennio dopo millennio. Bruni ha nella sua laringe le carni umane del gorgogliante Polifemo, possiede un’intera orchestra di toni attraverso i quali passa con agilità dalla sulfureità della Sfinge alla ieraticità stanca dell’indovino Tiresia. La sua voce ha la stagionatura del cuoio, è una carezza che sa farsi serica così come ruvida, quanto lo può essere la mano fonetica vissuta da tutti i personaggi che l’hanno attraversata. Valentino Mannias entra meravigliosamente nel tempio del personaggio di Edipo, e ci entra in punta di piedi, mostrando tutto lo sforzo di sfuggire alla fatale morsa degli dei. Mauro Lamantia diventa Giocasta con estrema naturalità, attraverso un vestito fonetico in grado di cancellare la sua fisicità maschile, e di arrivare per sottrazione al tragico personaggio femminile. Edoardo Barbone è un aedo postmoderno, non si limita a raccontare, ma è il racconto stesso, fa della sua laringe una lira in grado di riprodurre anche le note più scomode. Nel finale la meravigliosa fatica del narrare, di una carne che si è generosamente donata alla vocalità, traguarda nella catarsi di un generoso e meritatissimo applauso.

Danilo Caravà

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