
L’immagine digitale di un frigorifero nello spazio riesce a fare lo stesso bell’effetto descritto da Lautremont nei Canti di Maldoror, quello dato dall’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello, ed è quella che rimane come una persistenza retinica nell’incipit di questo lavoro creato dal Collettivo Menotti. L’ingrediente principale è rappresentato dal romanzo di Douglas Adams “Guida galattica per gli autostoppisti”, il mondo sta per finire ed i protagonisti non hanno simonettianamente niente di adatto da mettersi, tranne degli utili e turistici asciugamani.
Nel Ristorante al Termine del’Universo si gioca tragicomicamente un finale di partita, mentre i piani ravvicinati lanciano il loro ideale “beckettenepare” allo spettatore, ed il benvenuto è nello stile del vecchio e caro cabaret, perché la fine prossima dell’eterna repubblica di Weimar intergalattica è sempre lì, a meno di un sorso del proprio cocktail. Ma si canta in questo locale, come decide l’orchestra del Titanic, si fa musica per intrattenere negli ultimi istanti, anche quando le comunicazioni si interromperanno definitivamente con Major Tom, anche quando il rocket man sarà solo un puntino in un cielo di lustrini. Ci vogliono le canzoni, perché diventino l’attaccapanni degli ultimi ricordi, perché quando si hanno troppe cose da dire, che non possono essere contenute dal linguaggio, non si può fare altro che mettersi a cantare. Ci mettono tutto il fiato che hanno questi giovani, corrono con le gambe dell’anima fino a farsi scoppiare il cuore, per far passare la voce al di là dello schermo – video.
Si sente un gusto decisamente agrodolce, si avverte che da un momento all’altro il rimmel potrebbe sciogliersi in pianto, e sembra che sia il teatro stesso a muovere le loro bocche, a far vibrare le laringi per ricordare che è sempre lì sul palco, e che sente tutta la struggente nostalgia della platea. La fantascienza ha tutto il sapore di una proiezione in avanti, necessaria, la volontà degli interpreti di provarsi negli esercizi preparatori al lancio nello spazio, di sperimentare l’effetto di una centrifuga, e cosa accada ad un’accelerazione pari a 9 volte la gravità terrestre. Ognuno di loro ha il suo speaker’s corner, il momento in cui monologare, ed è una sorpresa piacevole accorgersi freudianamente, che, nelle pieghe delle loro parole, appare come un linguaggio proprio, a sé stante, la lingua del’Altro lacaniano, dell’inconscio, fatto di sospiri, di pause, di timbrature che battono con forza la parola sul foglio dell’occhio della telecamera, e questo idioma altro non è che la loro passione. Rovesciando la semplicità e la purezza della battuta della Claudia Cardinale di 8 ½ si potrebbe sintetizzare questo anelito, che emerge dal mondo delle loro intenzioni recitative, con la frase”sanno farsi volere bene”, ed hanno un selvaggio, disperato bisogno del pubblico, lo chiamano con gli sguardi e con tutta la voce del loro corpi, come gli esseri androgini, evocati nel Simposio di Platone, i quali, una volta divisi, cercano pervicacemente la loro metà mancante. E’ nel luogo insieme post-moderno e archetipico del bar che vive tutto questo, e potrebbe nascere dai fondali marini di Benni, ci si potrebbe imbattere in un Tennessee Williams che si gioca il suo mondo con le ultime sorsate, spostando momentaneamente la collocazione a Tokio, in un bar di un albergo.
Ma quello che importa è che sta per arrivare la fine di tutto, il “gib – gnab”, il contrario del big bang, si avvicina la fine, ed allora, come immagina Asimov, non si po’ che battere le parole più velocemente, grassettarle, chiudere l’assurdo dell’esistere, in un bicchiere, in una battuta, in una gag da stand up comedian, od in un momento di verità in cui le parole sono più fredde dell’universo, dunque, per scaldarsi, devono accendere il fuoco della verità, e tra la verità del personaggio e quella dell’interprete c’è giusto un tempo, un numero del countdown finale che annuncia il termine di tutto. Se il dio di Einstein non gioca a dadi, possono giocare la loro fine questi personaggi, che non ci stanno proprio ad essere contenuti nello spazio di un’immagine, si muovono, si agitano, si ricordano e ci ricordano di trovarsi su un palcoscenico. E nell’ideale annuncio del “signore e signori tra qualche minuto il locale chiuderà” è un po’ come se il Collettivo Menotti vivesse il proprio deja vu, come se la moviola tornasse indietro qualche istante prima dell’ “extra omnes” nei confronti dei teatri. E la platea è lì, porta ancora una eco, una notizia dei corpi che l’hanno abitata, è fatalmente una nostalgia, un’attesa, uno sguardo profondo delle attrici e degli attori, quasi nella convinzione che più forte e più intenso sarà il proprio guardare, più potrà ritornare, come l’impronta retinica di un lampo sulla retina dell’interprete, la luce dei volti degli spettatori.
È un atto d’amore questo spettacolo, un bisogno d’amore che vive nei sorrisi e nelle lacrime lasciate in potenza, che sono il tremolio delle stelle. E quando tutti gli interpreti, la cantante, , il musicista, sono lì schierati, pronti a ricevere ’applauso c’è una voglia invincibile non solo di darlo, ma di farlo arrivare a loro, come può giungere un messaggio nella bottiglia digitale.
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