Recensione: “Schianto”

schianto
foto Antonio Ficai

Rotto, spaccato, fermo, infranto. il tempo degli ideali, delle grandi speranze. Una generazione persa, senza appigli, senza punti di riferimento; cresciuta con miti che facevano parte del passato. Quella generazione, racchiusa tra la fine degli anni settanta ed i primi anni novanta, che una volta accortasi del fatto che tutto fosse da ricostruire, ha iniziato a chiedersi se fosse realmente in grado di farlo.

Questa è la grande riflessione e presa d’atto che mette in scena la compagnia Oyes con lo spettacolo “Schianto” andato in scena il 19 e il 20 gennaio al teatro Binario 7 di Monza.

In un contesto di installazione d’arte ancor prima di essere scenografia, gli Oyes da subito definiscono la dimensione onirica e metaforica. Al centro della drammaturgia ci sono quattro personaggi esemplificativi della generazione rappresentata. Il dichiarato pretesto narrativo sono una serie di macro incidenti che portano a incontrarsi un uomo ricco e cinico, che scopre di essere gravemente malato; un tassista semplice ed esuberante (oltre ad essere un compendio ironico di arrogante ignoranza), una cantante di grande talento ma al di fuori degli standard estetici richiesti dall’establishment dello spettacolo contemporaneo ed infine il personaggio che più rappresenta quella parte di sognatori ingenui che pensavano o, pensano ancora, di poter fare, per costruire qualcosa di diverso. Si tratta di Robin, direttamente dal mondo dei fumetti. Uno degli eroi forse più sottovalutato e che vive difficilmente fuori dall’ombra di Batman.

In tutti i personaggi, ma in Robin in particolare, il rapporto con i genitori e con una storia enorme di scoperte e rivoluzioni, di grandi maestri e mitologiche avventure intellettuali ormai svanite, viene espresso attraverso il peso di un passato che non vuole accettare di essere tale. Di un mondo orgoglioso del suo operato al punto tale da dimenticarsi, o rifiutarsi farlo, di formare il futuro come prima era stato fatto con loro. Tuttavia i protagonisti dello spettacolo non rappresentano solo un’accusa verso ciò che è stato, ma soprattutto un’autocritica. Infatti la cosa che accomuna l’imprenditore, il tassista e la cantante, sono il sentirsi sconfitti, una specie di si salvi chi può che ha portato poi a perdersi ognuno a suo modo. Non c’è unità, nessun vero dialogo. Solo incroci disillusi, diffidenti e autodistruttivi.

Ne esce anche una grande sensazione di vittimismo che stenta a riuscire ad alzare lo sguardo dal proprio dramma personale per accorgersi di non essere solo. Allontanano l’unica figura che cerca, seppur grossolanamente e in modo impacciato, di costruire un dialogo vero, rivolto all’esterno invece che all’interno.

Gli attori Francesca Gemma, Dario Merlini, Umberto Terruso e Fabio Zulli interpretano con grande intensità i loro ruoli dimostrando un forte lavoro di analisi e preparazione che restituisce al pubblico una complicità che va al di là della storia e dei loro personaggi. La regia di Stefano Cordella è infatti molto strutturata e costruita su intrecci simbolici e, parabole narrative, ben calcolate e molto precise. Il grande lavoro si evince anche dal disegno luci di Stefano Capra, dal sound design di Gianluca Agostini e in particolare dalle scene di Maria Paola di Francesco che è riuscita a costruire un contesto narrativo di grande impatto ed in grado di sostenere la sfida che il progetto richiedeva.
Questo spettacolo è stato anche finalista del bando “Forever Young 2017” della corte ospitale.

Michele Ciardulli

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