“Gli intellettuali, i cosiddetti intellettuali, perché esistono soltanto cosiddetti intellettuali, sono autentici buchi di culo.”
La citazione di Thomas Bernhard riportata sul programma di sala è una breve ma esauriente presentazione dello spettacolo Ritter, Dene, Voss, diretto da Renato Sarti, in scena presso il Teatro Oscar dal 13 al 18 gennaio.
I protagonisti della commedia sono i tre rampolli di una ricca famiglia austriaca, i Worringer. Le due sorelle, senza nome e semplicemente distinte in Maggiore e Minore, sono attrici che calcano la scena soltanto perché possiedono il 51% delle azioni del teatro dello zio, mentre il fratello Ludwig, presunto filosofo (ma guai a definirlo in questo modo, lui è un “anti artista”!) impegnato nella stesura di una monumentale opera di logica, si è volontariamente rinchiuso in un manicomio.
È il ritorno a casa di Ludwig a creare il pretesto per l’azione scenica, che è in realtà una “non-azione”, in quanto tutto resta immobile, congelato in lunghe conversazioni cariche di astio e malignità senza che poi si verifichi un cambiamento effettivo. Eccetto vani tentativi di ribellione da parte di Ludwig – repressi tra l’altro da lui stesso – i tre fratelli sfogano il proprio odio tra di loro e, non potendo uscire dal classico salotto borghese alla Ibsen, si crogiolano in rapporti perversi e incestuosi.
Questa condizione è resa anche dalla scenografia, realizzata da Carlo Sala, che imprigiona i tre protagonisti nella struttura “a gabbia” su cui sono appesi i ritratti degli avi, memorie polverose di una gloria trascorsa e di cattivo gusto, reliquiario a cui i fratelli già atrofizzati sono condannati.
Il lungo tavolo, accuratamente apparecchiato dalla Sorella Maggiore con il prezioso servizio di famiglia, crea una specie di barriera con cui i fratelli si proteggono dal mondo, da cui sono attratti ma da cui allo stesso tempo si isolano rifugiandosi in casa piuttosto che in manicomio, forse perché in fin dei conti sanno che anche il dottor Frege è una fregatura: oltre il tavolo, li attende la Vienna post-Anschluss, decadente e perduta.
Alla indagine sulle malate e asfissianti dinamiche familiari si aggiunge una riflessione sulla figura dell’artista, dell’attore, dell’intellettuale, stigmatizzato dalle caustiche e beffarde battute dell’autore Thomas Bernhard. Non è infatti un caso che Bernhard abbia scelto per il titolo dell’opera i nomi degli attori reali (Ilse Ritter, Kirsten Dene e Gert Voss) diretti dal regista Claus Peymann per la rappresentazione portata al Festival di Salisburgo nel 1986. In “Ritter, Dene, Voss” si celebra lo sfacelo di una famiglia ma anche quello di una società corrotta e di un’intellighenzia ipocrita e fallita che ha completamente perso il senso del proprio esistere. Tutto questo viene affrontato con sarcasmo e la geniale scrittura di Bernhard trasforma il più profondo tormento in risata acida, come lui stesso ride di sé: “Certo, sono considerato un cosiddetto scrittore serio e la fama si sta diffondendo. In fondo non è per niente una bella fama. Mi mette assolutamente a disagio”.
Anche il regista Renato Sarti sceglie come chiave interpretativa l’ironia, sottolineando gli aspetti comico – grotteschi del dramma, si permette perciò piccoli scherzi scenici come la firma storpiata dietro i quadri e soprattutto si avvale della Filarmonica Clown, trio di trentennale esperienza composto da Valerio Bongiorno, Piero Lenardon e Carlo Rossi. Grazie al gioco del travesti, alla mimica efficace e ai tempi comici i tre interpreti riescono a dare a questa tragicommedia spessore e leggerezza, come solo i bravi artisti sanno fare.
Beatrice Marzorati
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