
Hanno sguinzagliato metaforicamente i mastini della guerra i due registi di questo progetto, ovvero Lino Musella e Paolo Mazzarelli, per raccontare allo spettatore un conflitto prima di tutto interiore, una psicomachia giocata nell’anima dei personaggi.
La corona è una sorta di forma a priori di kantiana memoria, un filtro che deforma la realtà ed il volto, come nella riuscita intuizione registica dello specchio chiesto da Riccardo, che diventa per la platea una lente deformante. Viene dunque offerto un prodotto seriale teatrale, un meticciato interessante che, a fronte della sempre più frequente bulimia delle fiction a puntate, propone una declinazione teatrale di tale formula, e dà nuova giovinezza alle opere del bardo di Straford-upon-Avon.
Questo lavoro, in scena al Teatro Parenti, rappresenta la prima tappa, ovvero l’unione di due testi, Riccardo II e la prima parte di Enrico IV, ed il progetto si svilupperà ulteriormente attraverso tre re, Enrico V, Enrico VI ed Enrico VII. Si tratta senza dubbio di un work-in-progress ambizioso, affrontato con coraggio e determinazione, e che solleticò anche le papille gustative del buon Orson Welles. I re, Riccardo II, ed Enrico IV, vivono certamente il momento recitativo più interessante nel momento della crisi, in cui si spogliano della retorica politica e ritrovano una luce filosofica fatta di fonemi agri, essenziali che si lasciano distorcere dagli effetti sonori. Negli altri momenti loro ed i personaggi di contorno schioccano sillabe sferzanti, al ritmo di diaframmi che s’agitano freneticamente come tamburi di guerra.

Il gioco dei potenti, è vorticoso, e lascia fatalmente il fiato troppo corto al povero Giovanni di Gaunt, lo zio di Riccardo, che è in debito di ossigeno fin dai primi vorticosi giri di valzer politico. Lo sfondo nero, drappeggiato da sipari rossi, la luce “malata” caravaggesca, ed i tagli alla Rembrandt regalano la visione di un “cosi è se vi pare agli spettatori”, che vedono le maschere cadere ad un una. Re Riccardo II, un ottimo Paolo Mazzarelli, con capacità esprime la metamorfosi da monarca sibarita e viveur, a uomo messo a nudo, intento a giocare pericolosamente con la mente ed i suoi tarli.
Il giovane Enrico IV, un grintoso Marco Foschi, esprime tutto lo spirto guerrier ch’entro gli rugge, mentre l’Enrico IV agée, l’ottimo Massimo Foschi, offre i toni caldi e pastosi della sua laringe, per interpretare un leone d’inverno che vuole ancora graffiare. Lo stesso Marco Foschi, ovvero il futuro Enrico V, libertineggia fatuamente per poi scoprirsi più realista del re, indossando l’ira funesta di Achille che infiniti addurrà lutti ai ribelli. Bravi anche gli altri interpreti che bene disegnano i toni scuri del primo tempo ed il disimpegno falstaffiano dell’Enrico IV, prodromo del nuovo nero della battaglia. Ma tutto questo rimane sospeso in un’ideale “to be continued” che rimanda al secondo capitolo di questa avvincente saga teatrale. L’interrogativo del titolo sembra in buona sostanza la ricerca di una quiddità, di una riconoscibilità, di una sorta di patente metafisica per il re, che in realtà sembra obbedire alla legge di impermanenza, e, una volta smessa la corona e lo scettro, è pronto ad interpretare il nuovo personaggio del dramma.
Danilo Caravà
Leave a Reply