
Dal 12 al 17 dicembre è in scena al Teatro I di Milano “Vieni su Marte”, della compagnia pugliese VicoQuartoMazzini. Michele Altamura e Gabriele Paolocà imbastiscono il loro ultimo lavoro partendo da un approfondimento del progetto Mars One, provocatoria sfida proposta e guidata nel 2012 dal ricercatore olandese Bas Lansdorp che ha lo scopo di stabilire una colonia permanente su Marte. Le candidature, inviate tramite video sul web, sono state in totale 202.568, dato che ha fatto riflettere i membri della compagnia teatrale indipendente, al punto da dargli l’ispirazione per inscenare una pièce fantascientifica ambientata in un futuro prossimo in cui i fortunati vincitori della selezione possono finalmente coronare il loro sogno e divenire per sempre marziani.
Quello su cui si interrogano Altamura e Paolocà è lo scopo che spinge un numero così elevato di persone a compiere una scelta così drastica: cosa vogliamo veramente noi terrestri da Marte? Forse partire per sempre è solo un modo come un altro per evadere dalle proprie vite, sperando in un mondo migliore. Ecco che da questa premessa si diramano diversi ritratti di vita quotidiana di svariati personaggi, che all’interno della propria sfera privata si preparano al lungo viaggio con biglietto di sola andata, salutando amici, parenti e persone care.
Attraverso i due attori, abili trasformisti che passano rapidamente da un ruolo all’altro, vediamo una moglie che non vuole abbandonare il marito, assistiamo alla triste scena di un’anziana vedova che trasporta sulle spalle la bara del coniuge sulla navicella e osserviamo un clochard coronare il suo sogno, grazie a un biglietto per il pianeta rosso donato da una benefattrice.
L’insieme di queste scene è tutt’altro che sereno: le ambientazioni, assieme alla crudezza dei personaggi, riflettono una contemporaneità fortemente verghiana, in cui non sempre i buoni vincono e dove spesso le persone non sono gentili, né oneste. La tristezza esiste, così come la povertà e l’ignoranza e il duo teatrale ce lo ricorda, non addolcendo la pillola, ma mostrandoci in toni dal rimando puramente neorealista un mondo vero, crudo, talvolta cattivo.
Assieme a questa amara verità, tramite la narrazione di queste storie, la compagnia VicoQuartoMazzini approfondisce la propria riflessione iniziale, chiedendo al pubblico un’autovalutazione, una personale presa di coscienza: se sulla Terra l’uomo ha portato guerra, razzismo e mille altri mali, cosa ci fa pensare che su Marte sarà diverso? Se sul pianeta rosso atterreranno gli stessi ignoranti che attualmente vivono sul nostro pianeta, quale apporto pensiamo che possano dare? Come ridurranno il pianeta? Altamura e Paolocà, in maniera sottile e indiretta, ci fanno capire che forse il problema non è il pianeta, ma siamo noi. E anche se riuscissimo a raggiungere un’altra galassia, il problema resteremmo comunque noi umani.
Ad intervallare le scene di vita quotidiana ci sono numerosi video estrapolati dalle candidature inviate per il Mars One, che danno momenti di respiro, regalando attimi di comicità che ben intervallano la solennità di altri momenti. Oltre a questi, altre riprese di stampo avanguardista diluiscono la performance dei due attori, trasportando gli spettatori in un ambiente futuristico e spiazzante, che riprende l’atmosfera spaziale in cui la compagnia vuole immergerci.
Cornice di tutto è una storia che si distende lungo tutto lo spettacolo e che dà un barlume di speranza, fungendo da controcanto positivo al tono pessimista generale. Uno psicologo dialoga con un paziente nato e cresciuto su Marte, in totale assenza di emozioni e stimoli artistici. Il paziente, che ad inizio spettacolo è non dissimile da un automa, verso la fine della rappresentazione arriva persino ad emozionarsi e piangere, grazie all’aiuto del suo curante. Questo gesto conclusivo, atto a rappresentare una qualità positiva dell’essere umano terrestre, viene accolto come un barlume di speranza e come una forza reattiva potente che ci fa riconoscere che in noi abitanti della Terra c’è ancora qualcosa di buono su cui possiamo lavorare. Così da migliorare le cose, senza necessariamente doverci trasferire altrove.
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