Recensione: “Topi”

topi

E’ il 2001, vent’anni fa.
E’ l’anno del G8.
Due servi di scena, Claudia Russo e Stefano Rocco, iniziano a raccontarci una storia, la storia dei fatti accaduti a Genova documentando molteplici voci, pensieri, ricordi, letti, ascoltati, immaginati.
Parallelamente Sandro Canepa, interpretato da Ermanno Pingitore, è un uomo affannato a organizzare un’importante cena di lavoro e tutti gli invitati si riuniranno in casa sua.
I due attori sono chiamati a sospendere il racconto, a fare il proprio lavoro, organizzare lo spazio, riordinare l’appartamento, trasformarsi in armadi, citofoni, telefoni.

Il Sandro in questione è un personaggio di fantasia, che si assume inconsciamente il ruolo di metafora intima e casalinga di quanto succede fuori dal suo piccolo appartamento. Sandro abita a Genova ed è immaginario tanto quanto i narratori sono ancorati alla realtà. Le loro parole non sono rielaborate ma per la maggior parte si aggrappano a testimonianze di persone presenti quei giorni in città: la voce viva di ricordi veri.
Il signor Canepa ci fa quasi tenerezza, emozionato com’è per l’evento che dovrà ospitare di lì a pochi giorni, per il suo impegno e attenzione con cui si prostra per cercare di fare tutto per bene. Pasta, mele, torte, tovaglia, bicchieri, una vecchia radio occupano il suo spazio. Tuttavia non è solo: piccole presenze si insinuano nel condominio in cui abita e poi nel suo appartamento. Topi, invisibili, destabilizzano la buona riuscita della sua cena importante.

I due attori guidano un continuo doppio gioco in cui intervengono dal confine, rompono le linee, sospendono Sandro, lo lasciano lì fermo, alle sue futili preoccupazioni, alternando il loro ruolo di narratori e servi aiutati da un impianto illuminotecnico e audio che scandisce i tempi del signor Canepa e dei fatti di Genova. Così come scandito è lo spazio interno ed esterno, il corpo e il testo, l’intimo e il collettivo.

Registrazioni reali arricchiscono i cambi scena, ci aiutano a ripercorrere i percorsi delle forze dell’ordine, le sensazioni e emozioni di una madre. Voci di esperti derattizzatori descrivono tecniche e soluzioni stroboscopiche, audio di fantasia popolano la segreteria telefonica del signor Canepa, lo scherniscono e lo invitano a soluzioni drastiche. Ogni tanto quando le finestre sono aperte, si sentono le parole dei manifestanti, il brusio della folla, presto chiusi nuovamente dall’impegnato e disinteressato Sandro fuori dalle quattro mura di scotch dell’abitazione.

Le premesse tese del sabato di Canepa e dei giorni prima del G8 prendono corpo, la tensione sale e la situazione precipita. Quando i topi sono troppi, infiniti, dappertutto e sembra impossibile arginarli, Genova è in subbuglio.
Un colpo di scopa vale un topo morto e lo scandalo di un ragazzo a terra in piazza.

I roditori affiorano negli incubi del protagonista, sono ancora lì, tutti, a ballare spudoratamente sulla tavola da pranzo, a vivere la loro poesia.
A mali estremi, estremi rimedi: le ombre dei fumi della disinfestazione si spandono in casa, cercano di sovrastare silhouettes di topi che non nascondono più una presenza impalpabile. Gli stessi fumi raccontano al pubblico la vicenda della scuola Diaz, che completa un capitolo triste e drammatico di storia nazionale lasciando lo spettatore avvolto nel ricordo di un tempo ancora vivo, forse chiuso per troppo fuori dalla nostra finestra.

La compagnia Usine Baug ha trattato in modo profondo, attento e delicato una ferita ancora aperta nella nostra memoria. Il doppio livello di sviluppo scenico, sostenuto da una robusta e considerevole componente di audio, musica e luci – sotto la guida di Emanuele Cavalcanti – accompagna parallelismi pungenti e scuote le coscienze. Tra il sorriso per una piccola storia quotidiana e la riflessione nei confronti di una realtà cruda e tutt’ora inaccettabile, lo spettatore è chiamato a tornare collettività e, accompagnato verso un’emozione crescente, a riscoprire vividamente ciò che è rimasto sopito.

Vera Di Marco

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