
Per avere l’illuminazione giusta su questo spettacolo, il kensho della tradizione del buddhismo zen, basta immaginare la scatola del gioco teorico di Schrödinger, e invece del povero gatto in attesa della certificazione, da parte di uno sguardo esterno, del suo stato di vita o di morte, troviamo una coppia, i cui destini vengono scoperchiati l’uno dopo l’altro: tutte le possibili alternative, tutti gli universi paralleli, i prima e dopo perdono la loro consequenzialità, nella densa nube delle potenzialità subatomiche. Si ha l’impressione di assistere a dei delicati esercizi di stile dove Queneau idealmente sposa il suo “tipo di circa ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro”, con il misterioso mondo della meccanica quantistica, dove la materia svela di essere fatta di sogni.
Il Prospero shakespeariano aveva ragione, e il testo scenico può diventare un meraviglioso acceleratore di particelle. Il protagonista, e la protagonista, due particelle in cerca di osservatore, passano attraverso delle sliding doors, fatte da linee di luce, e vivono anche l’altra scelta, l’altra possibilità; svelano che tutte le possibilità esistono da sempre, e per un istante, per un lungo, interminabile, dostoevskijano istante, sullo specchio severiniano si muovono, agiscono, parlano, dando visione a quel particolare fotogramma degli Eterni. Tutto ciò che è stato e non è stato, che è e non è, che sarà e non sarà vive in una perfetta sovraimpressione, da sempre e per sempre, illuminato di volta in volta da questa luce, perfetta, precisa come un bisturi, spirito apollineo astratto fino a diventare una forma geometrica, simile ai modelli grafici delle strutture atomiche e subatomiche. E poi il regista Raphael Tobia Vogel ha una di quelle intuizioni in grado di far fare un vero e proprio salto quantico allo spettacolo: introduce l’imprevedibilità, l’irrazionalità, l’impossibilità di ricavare una media statistica, una formula matematica in grado di esprimere e di risolvere l’equazione dell’amore, attraverso una recitazione spontanea, immediata, una presa diretta ricavata mediante un microfono spirituale, psichico, emotivo, dell’anima dei personaggi.
Eccoli lì, sul palcoscenico sono un homme et une femme lelouchiani, i due elementi in grado di dare il via al big bang del testo scenico, dell’atto teatrale. Sono veri, non verosimili, e ci mostrano tutta la vulnerabilità degli atri e dei ventricoli cardiaci, e tutta la precarietà e il mistero di quelle contrazioni che si ostinano a contare un tempo per se stesse. Prima di tutto sono, con tutta la forza esistenziale di questo verbo così immediato e insieme così indeterminato. Sembrano rispondere idealmente all’affermazione di Einstein, “Dio non gioca ai dadi”, con un sorriso gentile, con la volontà di rimettere un’altra volta i cubi numerati nel bussolotto per vedere se usciranno numeri più favorevoli. Hanno quel tempo del vivere che ha bisogno di sostare sulla panchina del palcoscenico per prendere fiato, per darsi un senso.
Le loro frasi sono le nostre frasi; nessun grasso retorico, didascalico le ricopre, nessun orpello stilistico, nessun arabesco autorale le rovina. Un plauso è dovuto certamente alla drammaturgia di Nick Payne che, declinando la storia attraverso lo specchio della diffrazione degli universi paralleli, torna a quel linguaggio quotidiano che scrocchia come la crosta di un pane appena sfornato, che è piacevole quanto una fine pioggerellina primaverile. Non c’è confine tra il tragico ed il comico, tra il dramma e il riso, nessuna barriera è frapposta, ma una osmosi continua contagia entrambi i generi. Questa è la vita di due creature, dell’animula vagula e blandula di Adriano che ne incontra un’altra, e questo incontro così piccolo ed insieme così grande, illumina di una luce diversa, di una geometria non euclidea lo spazio scenico.
Elena Lietti, l’attrice, ha due mani che non sono semplici mani, sono discorsi dell’anima, sono ali di angeli interiori che timidamente si mostrano allo sguardo dell’altro. Dietro quel maglioncione batte il cuoricino di uno scricciolo. Regala la nudità del suo essere, del suo interrogarsi interiore agli spettatori, appare in questo modo, come la signorina Else, nuda, non corporalmente, ma offrendo quel tipo di nudità più difficile da mostrare alla platea, quella del proprio spirito. Le intenzioni sono prese lì, dalla pancia, dal ventre, e i suoi fonemi portano il calore della luce interiore, di quel camino acceso davanti al quale lo spettatore si scalda volentieri. Pietro Micci incarna un personaggio maschile in grado di mostrare tutta la sua terzodimensionalità, attraverso le fragilità, i dubbi e le incertezze, tutto quel patrimonio di piccole e grandi nevrosi che ci rendono meravigliosamente umani. Parlano anche le sue intenzioni devianti, i suo atti mancati, i suoi gesti apparentemente piccoli, ma gravidi di significatività. I suoi sguardi vogliono disperatamente, selvaggiamente, abbracciare l’altro personaggio e insieme tutta la platea. Tutto lo spettacolo sembra essere la risposta ideale al titolo della famosa opera di W. H. Auden, eccola qui tutta la verità, nient’altro che la verità, sull’amore, una semplice quotidianità che profuma del lievito del “per sempre”.
Danilo Caravà
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