Recensione: “Senza filtro”

senza filtro

La recensione dello spettacolo “Senza filtro” che chiude la rassegna “Ieri e Oggi” organizzata da Teatro 2.0.

Ascolta l’intervista alla protagonista Rossella Rapisarda realizzata su radio koryphaios

I pixel digitali di questo spettacolo hanno un segreto, quello di comporsi in due occhi, un centro di gravità che fatalmente attira lo sguardo dello spettatore. Non sono semplicemente due occhi, sono gli sguardi del fanciullino pascoliano che non solo ha i brividi di Cebes Tebano, ma anche “lacrime e tripudi suoi”. La protagonista Rossella Rapisarda è un angelo in scena, ma non uno di quelli terribili e fatali che giganteggiano in qualche dipinto o in qualche affresco, piuttosto è uno di quegli angeli di Wenders, che avvicinano il capo agli uomini per avvertirne più distintamente i pensieri e le emozioni. Ha due ali enormi, bellissime che sono il suo sguardo, due ali da albatros baudelairiano, e guardandoci attraverso ci si perde, in quella meccanica del volo, in quello stupore dei fiori di Cioran di fronte all’umano.

Per descrivere Alda Merini e la sua poesia, dona alla sua voce il passo leggero del fonema nudo, che danza con grazia, lasciando giusto il velo leggero del suono gentile a coprire il pudore dell’anima. Riescono ad abbracciare le sue parole, insieme la poetessa e gli spettatori. È la bacchetta viva di un rabdomante in grado di vibrare ai versi della Merini, è la Pizia del Naviglio in grado di oracolare sulla realtà della quotidianità metropolitana. A fare il miracolo scenico basta la rievocazione di un bar, un tavolo, delle sedie, una vecchia macchina da scrivere, che sfida con il suo battito, il più delle volte silenzioso, ma che si avverte distintamente nella testa, quello cardiaco. È lì per catturare la curiosità nostra e della videocamera, pronta a farsi palcoscenico di una coreografia digitale, di una danza di dita, pronta a rubare un po’ di assoluto ad ogni frase. Il merito di questo spettacolo è quello di restituire la poesia così come l’ha tratteggiata Aristotele nella Poetica, una parola gravida di eternità, una promessa, mantenuta, di universalità. Si scrolla di dosso la burocrazia del significato lessicale, degli automatismi della comunicazione, e riconquista, in lampi di verità, la dimensione del mythos, del verbo che, masticato dal sentire del’ascoltatore, ha ancora il sapore delle antiche divinità.

Ma il segreto della poesia della Merini è quel disperato, struggente, ininterrotto, canto d’amore che risuona da una poesia all’altra, e questo la Rapisarda lo sa, e lo restituisce allo spettatore. Ecco perché ritorna incalzante come una Musa instancabile a suggerire, con le veloci ali di Herrnes, con la sua voce, “scrivi Aldina, scrivi”. Scrivendo, la poetessa mette al mondo il mondo, cerca di sciogliere le doglie ed il dolore, nella nascita di una poesia, un paesaggio di parole dove far sostare la fatica della percezione, la fatica dell’esserci. Si fa specchio la protagonista, si fa doppio spirituale della Merini, le ridà nel proprio corpo la sua vita, quella di tutti i giorni, insieme a quella interiore, meravigliosamente caotica e sempre illuminata dalla luce della poesia. Si racconta tutto con l’onestà dello sguardo di un bambino, anche il terribile momento del manicomio, dell’albatros catturato, costretto a muoversi con difficoltà, a caracollare goffamente sulla terra, costretto a vedere un muro al posto del cielo.

L’equivoco, che ha tanti compagni di viaggio esistenziale, come Van Gogh, Artaud, è quello di scambiare la creatura che ha un’anima senza pelle, sensibile al più leggero vento, una sacerdotessa in grado di restituire attraverso la metafora lirica, la voce altrimenti incomprensibile degli dei, con una Cassandra a cui non si crede, a meno che non si chiudano gli occhi, e si aprano quelli del cuore. Nella restituzione dell’atto del fumo, respirato con curiosità crescente, con avidità, per succhiare, come suggerisce Thoreau, tutto il midollo della vita, l’interprete scopre la gioia nascosta, proibita, quelle piccole felicità che riposano nella pigrizia dei giorni. Rinasce ogni istante alle emozioni così come suggerirebbe Stanislavskij, è un tabernacolo di riviviscenze, e permette di sentire l’odore delle emozioni così come si avverte l’odore del lievito, del pane caldo, nei pressi di un fornaio, di un panettiere. Il suo abito bianco è abitato da parole, numeri, come le pareti della Merini, per esprimere tutta quella urgenza dello scrivere, la necessità di catturare l’idea che sottende la parola, e fissarla lì, per sempre, su un foglio, sull’intonaco. È bravo Fabrizio Visconti, rimboccandosi le maniche registiche, ad essere stato socraticamente maieuta, ed aver aiutato l’attrice a partorire il personaggio, dando alle ali dell’angelo le piume dei sorrisi della Rapisarda.

Il musicista Marco Pagani ha il merito di essere la prosecuzione musicale dell’anima del personaggio, di trasformare in note ed in ritmo quella dicibilità che fatalmente esonda dal dicibile,e non può che traguardare nella musica. Il caos scenico, i volti di tutti i giorni, sommati a quelli anonimi, il poetico disordine di un luogo scenico, che si candida a rappresentare immediatamente l’interiorità della poetessa, sembra esprimere, in forma di spettacolo, tutta l’essenza dell’aforisma di Nietzsche, bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi. E danza l’attrice con la sua recitazione, danza con agilità tra le parole poetiche, e mostra tutta l’apertura alare di un piccolo grande angelo che scopre l’amore nella poetessa Alda Merini.

Danilo Caravà

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