
Il testo di Macbeth, sotto l’implacabile barbiere Occam, si sbarba di tutto il superfluo, testa compresa. Tutto inizia dalla decapitazione di Macduff, il taglio netto all’ultimo residuo di mente speculativa, per lasciare che lo scontro con l’irrazionale di Camus arrivi fino alle estreme conseguenze. Il lungo, lunghissimo istante dostoeskijano è l’occasione per lasciare alla testa le ultime visioni, i nastri di questo Krapp scozzese continuano a scorrere anche in articulo mortis. L’intuizione della drammaturga Rita Frongia è quella di cogliere l’essenza stessa di questo personaggio di Shakespeare, nascosta sotto ia dura corazza contro cui battaglia contro il destino, l’ultimo monologo che pronuncia è la verità di un vento gelido che sferza la faccia, l’assurdo del vivere, lo scaccomatto dell’eroe passivo sofocleo, l’Edipo che comincia a vedere veramente solo quando si priva della vista.
Macbeth è quel matto che s’agita per un’orta sulla scena, la sua intuizione riscrive letteralmente la chiave di lettura del testo, la nottola di Hegel, sul far della sera, porta a Minerva una verità inaspettata. E’ maledettamente umano questo re, è un povero everyman di una morality play, un personaggio che prende coscienza di sé, e questa scoperta lo sconcerta quanto i fiori di Cioran all’apparire dell’essere umano. Vive di una luce sottile, rarefatta, di quella energia elettrica residua che accende, ancora per poco, il suo pensiero e la sua immaginazione. La sua mente svanisce, come quella di hal 9000, e il suo girotondo ripercorre le tappe della sua ascesa e della sua caduta. La trilogia tragica antica si è conclusa, è tempo del dramma satiresco, dell’impietosa risata, lo starnuto dell’ilarità trattenuto dietro la maschera del tragico, tra la smorfia e il sorriso c’è meno dello spazio di un sentimento, di un’emozione. Ruzante viene a parlare dal campo di battaglia, e la lady, che sopravvive come traccia mnestica vocale, sembra la Betia.
Il linguaggio e i gesti cortocircuitano, deragliano deliberatamente verso l’irrazionale, il grammelot, i fonemi si interrogano perplessi sul proprio esserci, sull’assurdità del loro essere stati pronunciati, hanno la punta più affilata della spada di Macduff, e sono in grado di infilzare il ventre della platea, che ride del magnifico spettacolo d’arte vario d’un uomo innamorato del teatro, di un amor fou. Luca Stetur non è un semplice personaggio, è tutto un testo scenico che cammina sul palco. C’è un istante in cui il giocatore di scacchi ha una sorta di visione dell’intera partita, fino allo scacco matto e oltre, e l’attore, fin dal suo ingresso in scena, ce l’ha, e tiene in pugno con uno sguardo, con un fonema, la platea tutta. E’ un Vincent Price pronto ad offrirci il suo Oscar insanguinato, un ipnotizzatore che ti trascina con una forza magnetica sotto l’albero di Vladimiro ed Estragone, e se non arriverà Godot, ci saranno sempre le tre streghe per ingannare l’attesa. Si porta idealmente in tasca l’essenzialità del teatro di Brook, si offre al pubblico così, in purezza, in remissione dei peccati del teatro barocco-balocco, facendo della recitazione una decisa dichiarazione di intenti, un’esistenza scritta in grassettato, silenzio, please, qui si gioca il finale di partita di un teatro che ha ancora una forma e una sostanza cardiaca.
Ogni momento scenico è proprio come dovrebbe essere, così, senza un filo di grasso, distillato e barricato nella botte delle prove. Non c’è alcuna quarta parete, solo la luce di un Diogene che dietro il nome di Macbeth cerca con ostinazione il vero uomo. Il potere, con buona pace di Andreooti, logora chi ce l’ha, e la tragedia è più forte se il male è banale quanto quello della Arendt, se è fatto di quotidianità, se si toglie i pesanti coturni, e cammina con scioltezza a piedi nudi nel parco. Il re muore, ma neanche i suoi sudditi non stanno molto bene, e da qualche parte c’è sempre un Macduff pronto a chiudere la partita, e dichiarare lo scacco matto. Stetur fa comprendere quanto il Macbeth sia un testo esistenzialista, in grado di confrontarsi a muso duro con la domanda delle domande, cos’è la vita? E’ la risposta è un tremendo manrovescio, uno di quelli che lascia il segno, e la risata è solo la prima sensazione olfattiva di questo vino corposo scenico, il retrogusto è amaro, persiste nel palato quel sapore di una posata ossidata, con la verità burroughsianamente di un pasto nudo, Ecco allora che, arrivati al fatidico monologo il tono si fa tremendamente serio, e lo zanni sa muoversi con agilità tra gli strumenti della tragedia, la hybris, e la dike. Si sentono non parole, ma si assaggiano tranci di vita duri da mandar giù, veri quanto le lettere che compongono questo articolo. “Ecce homo” sembra dirci a questo punto lo Shakespeare – Pilato, poco importa se sia Barabba o un povero Cristo, è, o potrebbe essere, qualunque essere umano. Gli interventi sonori di Luca Sesana, immergono la vicenda in una sorta di liquido amniotico coscienziale, aiutano lo spettatore ad esplorare questa terra di confine tra la vita e la morte, a dare forza alla luce crepuscolare di questa tragica esistenza. Il sole rosso di una lampada potrebbe essere il tramonto, o la nana rossa, una stella che accende la propria pira funebre per chi la vorrà guardare. Insieme asciutta, necessaria, lautremontianamente affascinante, la ghigliottina finale fatta degli interpreti che lasciano la scena compostamente, mentre cala, implacabile, la lama del silenzio sul corpo del testo scenico, applausi.
Danilo Caravà
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