“La grande abbuffata”, Ninni Bruschetta: “Il teatro non morirà mai”

Ninni Bruschetta
foto Luca Del Pia

Il Teatro Fontana torna ad ospitare “La grande abbuffata” spettacolo diretto da Michele Sinisi e ovviamente tratto dal film cult di Marco Ferreri che nel 1973 destò scandalo al Festival di Cannes. Tra i protagonisti sul palco troviamo Ninni Bruschetta che racconta: «Quando uscì il film ero un bambino però ricordo che a mio padre era piaciuto tantissimo e litigò con mia mamma che lo aveva detestato. All’inizio ero scettico, poi studiando cinema l’ho visto con più attenzione e ho capito il suo grandissimo valore. In particolare mi ha colpito il modo in cui è stato fatto perché nasce davvero da un’idea amicale, la sceneggiatura era minima e i protagonisti hanno messo tanto di loro».

Cosa ha pensato quando le hanno presentato questo progetto?

«La differenza l’ha fatta il regista Michele Sinisi che per me è una fonte di inesauribile felicità. È stato mio allievo e addirittura dice di aver deciso di fare teatro dopo aver visto il mio Giulio Cesare. L’idea di essere diretto da lui e il titolo scelto mi hanno portato a dire subito di sì. Abbiamo vissuto anche un piccolo momento di tensione perché a un certo punto, mentre provavamo non ho più capito dove volesse arrivare Michele».

E come l’avete risolta?
«Con la sua grande calma mi ha spiegato quello che cercava e io ci sono arrivato a pochi giorni dal debutto. Ho capito che ci stava facendo un grandissimo regalo mettendoci nella condizione di impossessarci dello spazio scenico. Sul palco ci sentiamo così liberi da poter fare ogni sera un’improvvisazione pura. Portiamo in scena un quotidiano preso il giorno stesso e a caso improvvisiamo su una delle notizie. Per fare una cosa del genere serve un lavoro mostruoso».

Al debutto il film fece scandalo, a quasi 50 anni di distanza come si presenta la sua versione teatrale?

«Ormai lo scandalo ha cambiato veste. Una volta quando le cose facevano scandalo se ne parlava tanto, ora la volgarità dei moralisti fa sì che se ne parli il meno possibile. Questo spettacolo ha girato molto ed è piaciuto tanto al pubblico, però ha incontrato una discreta ostilità da parte di certa stampa».

Di cosa ci abbuffiamo ai giorni nostri?
«Nello spettacolo mettiamo in scena un’abbuffata di segni. Ci abbuffiamo di segni e di contatti. I vari Instagram, Facebook, Whatsapp sono indubbiamente invasivi nella nostra vita e a volte non ci fanno comprendere la realtà delle cose. Ci sono artisti che con 50 like sui social pensano di aver fatto successo».

Nella preparazione dei personaggi vi sono stati d’ispirazione gli attori del film?

In parte sì. Noi abbiamo visto il film e fatto un bellissimo approfondimento insieme a Ricky Tognazzi. Io interpreto il ruolo che fu di Micheal Piccoli e mi ha aiutato il fatto che interpreto un uomo di spettacolo e non interessato alle donne. Una delle conversazioni più interessanti è stata durante un’intervista quando un giornalista ha insistito in maneria pesante su questo confronto. Io penso che se noi attori fossimo stati della stessa generazione di Mastroianni e Piccoli avremmo frequentato gli stessi bar e gli stessi ristoranti che frequentavano loro e avremmo avuto un rapporto di amicizia e intellettuale. Quando un grande film come questo diventa un classico i suoi personaggi sono a disposizione di chi ha la voglia e la qualità per interpretarli. Diventano come personaggi shakespeariani.

Che momento sta vivendo il teatro italiano?
«Non è cambiato molto rispetto a prima. Il problema serio del teatro italiano riguarda i teatri stabili che sono il cancro dello spettacolo in Italia. Il mercato è stato falsato dai teatri stabili, sono diventati dei carrozzoni che spendono i soldi dello stato per mantenersi. Oggi un attore guadagna di più lavorando per un privato piuttosto che per un teatro stabile. C’è poi una corsa alla direzione dei teatri stabili che rappresenta l’unica possibilità per certi registi, non necessariamente popolari e bravi, hanno per fare spettacoli che stanno uccidendo il teatro. Il teatro non lo uccidi solo con l’economia, ma lo uccidi anche quando allontani le persone. Abbiamo registi che giudicano da soli i loro stessi lavori svilendo il ruolo dello spettatore. È il pubblico che deve giudicare e dire cosa gli arriva dallo spettacolo».

Il cinema ha subito ancora di più l’effetto della pandemia?

«Il cinema inteso come sala è finito, ormai basta uno smartphone per vedere un film. Il teatro, invece, è sempre in fin di vita ma la sua ritualità gli permette di non morire mai. Dopo il lockdown la gente è tornata a teatro, ma non al cinema perché ci si stava già allontanando. Le sale andrebbero trasformate in museo per proiettare i grandi classici e le rassegne. Ormai i film antichi sono tantissimi e fanno parte della storia. Sarebbe anche un modo per far conoscere ai giovani i grandi titoli del passato».

Com’è stata l’esperienza nella musica con l’album e il tour insieme a Cettina Donato?

«È stata un’esperienza indescrivibile, una cosa che ti fa ringiovanire. Abbiamo fatto 19 concerti tra giugno e dicembre e il 24 febbraio riprendiamo da Bologna. Fare il disco è stato estremamente impegnativo, poi sono iniziati i concerti e sono diventato la persona più felice del mondo. Tutto merito di Cettina Donato, non so se lei è la mia musa o io la sua».

C’è anche grande attesa per Boris 4, che emozione è stata ritrovarvi?

«È stato divertentissimo lavorare insieme, ma noi attori non ci siamo mai persi di vista. Boris è il nostro gioiello. È stato come se non ci fossimo mai separati».

Duccio come sta?
«Non posso rispondere, sarebbe uno spoiler…».

Ivan Filannino

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