Recensione: “Macbeth, Inferno”

macbeth
ph Angelo Redaelli

Corrado d’Elia ci regala un incubo visionario e perfetto! La Compagnia del regista realizza uno spettacolo suggestivo e carico di simbolismo, in un teatro che diventa rituale, alterazione onirica, ossessione

Cari Amici di MilanoTeatri e di ProfAmà, vi porto con me nella mia personalissima riflessione sullo spettacolo “Macbeth, Inferno” del nostro più recente e graditissimo ospite, Corrado D’Elia.

Una trasposizione originale che assume le caratteristiche di un perturbante viaggio iniziatico e che vale assolutamente la pena di essere vista. In scena fino al 2 Novembre al Teatro Leonardo.

Buona lettura,

Veronica

“Macbeth, Inferno”

Giovedì 23 Ottobre al Teatro Leonardo ha debuttato “Macbeth, Inferno”, lo spettacolo della Compagnia Corrado D’Elia con D’Elia protagonista. L’attore è anche appassionato e visionario regista dell’adattamento, insieme a Marco Rodio. La produzione è di Compagnia Corrado D’Elia con MTM Officine Metropolitane Milanesi.

“Macbeth, Inferno” non è la tradizione rivisitazione della tragedia più dark di William Shakespeare: il drammaturgo milanese ne calca definitivamente l’atmosfera cupa, per poi trasformarla in un incubo paranoide che attraversa e sconcerta volutamente il pubblico.

Caratteristica dello spettacolo è la suddivisione degli atti dell’opera, scanditi graficamente da grandi locuzioni latine che anticipano ciò che accadrà. Invocazione delle tenebre, sacrificio, iniziazione, visione, esilio.

Gli attori principali sono Corrado d’Elia, Chiara Salvucci e Marco Brambilla.

Un incubo collettivo

Come detto, “Macbeth, Inferno” è una rielaborazione del celebre capolavoro del Bardo, ma a differenza di essa, D’Elia si cimenta presentandola come un grande spazio non spazio onirico. Che, immediatamente, prende l’aspetto di una visione mostruosa. Angosciante. Un incubo dunque, che travolge e sbigottisce il pubblico. Per D’Elia, “lo attraversa”.

Fin dall’inizio, il buio sovrasta palco e platea. Si susseguono suoni ancestrali, immagini in rapidissima successione, gestualità riturale, danze fra sciamanesimo e negromanzia, tumulti e respiri.
Tutto è esagerato, funzionale, per creare uno stato simile alla trance. Il risultato è uno scombussomento che porta il pubblico ad essere pericolosamente avvolto in un’atmosfera di delirio e morte.
Quella fisica, che è ben resa sulla scena, e quella dello spirito.

Ossessivo, compulsivo, Macbeth è dilaniato e divorato dalla tenebra che ha creato, prima esternamente e, a seguire, internamente. Nel suo inconscio. O, per meglio dire, nel suo stesso sogno.

Ogni frammento in scena è accompagnato da presenza e assenza della luce. Essa spazia prettamente fra rosso e blu. Evocatrice, non è tuttavia mai simbolo di lume. Piuttosto, è uno degli elementi che fanno da cornice perfetta al turbine di violenza e perdizione in scena. Taglia gli spazi, come fosse, anch’essa, fendente per colpire le vittime della brama e del destino di Macbeth.

Uno Shakespeare che brucia nell’anima di D’Elia

La drammaturgia che inscena D’Elia è atipica, ricca di suggestioni oscure. E, notoriamente, l’oscurità aumenta spesso il fascino ai nostri occhi. (Non dimentichiamoci che siamo lì, pronti ad agghindarci per Halloween fra streghe, Draculini e affini, perciò ammettiamolo. n.d.r.).

Questo Inferno non segue la trama in modo pedissequo, e il testo viene recitato in modo esasperato e forzoso, per accentuare la dinamica opprimente e soffocante della frenetica estasi onirica. Non c’è, giocoforza, un tempo che scorre in modo lineare. Questi due fattori contribuiscono a rimarcare lo stato di follia del generale. Nondimeno, i personaggi sono totalmente destrutturati e privati della loro psicologia, e i legami si slegano senza motivo apparente.

Macbeth è una vittima di un destino nefasto, ed esso è ben lontano dall’essere senza colpe. Egli diventa il più angosciato e al tempo stesso il più turpe degli uomini. Suo malgrado, egli porta a compimento quel disegno a lui predestinato. Ne è vittima e schiavo inglorioso. Le streghe, scalzate dalla potenza evocativa immensa, erotica e conturbante della nuova sovrana, assistono a come il nuovo signore viene divorato dalla volontà di “mangiare” il suo sovrano. Proprio quando quest’ultimo è ospite. Lo uccide dopo averlo accolto e sfamato, non a caso.
Si tratta pertanto di un destino compiuto e responsabile, che lo conduce, irrimediabilmente, alla sua fine. Essa coincide anche con la realizzazione completa della profezia.

Del testo, disossato, restano carne e sangue. Una truculenza suggestiva, irreale, eppure suggerita, graficamente e sapientemente servita, che pervade lo spettatore.

D’Elia ci mostra le ceneri di un antieroe tragico ormai consumato dalle fiamme del suo misfatto, prima ai danni di un uomo giusto, e poi reiterato per dare un senso a quello precedente. L’ardore del tempo del grande armigero al servizio di Re Duncan è ora lento e incessante affievolirsi di una fiamma destinata a spegnersi miseramente.

La trama di Macbeth, Inferno

Macbeth, generale di Scozia del buon re Duncan, durante il ritorno dalla battaglia con l’amico e pari Banquo, riceve una profezia dalle tre Streghe.

Egli diventerà signore di Glamis, Cawdor e, addirittura, sovrano. Quando il re gli conferisce il titolo di barone, in lui avvampa morbosamente l’ambizione (è il personaggio dell’autore inglese che più la simboleggia -n.d.r-). Spinto dalla spudorata moglie, Lady Macbeth, uccide Duncan, suo ospite.
Il banchetto in suo onore diventa rituale sacrificale, in cui ella invoca le forze del male. Insieme incolpano e uccidono i servi, mentre i principi fuggono, esiliati.
Senso di colpa e paranoia logorano i consorti, che assassinano anche Banquo e la sua progenie. Ad essa andrà la corona legittima, secondo il trio esoterico.

Troppi sono i morti e il potere acciocché il tiranno pazzo possa sottrarvisi. Le Streghe lo informano che resterà re fintanto che “la foresta non gli si muoverà contro”. Nel frattempo, nessun uomo nato da donna potrà nuocergli. Ciononostante, le morti inferte e temute gli causano confusione continua; la paura ne governa la mente con allucinazioni.
Il fantasma dell’amico Banquo, e il sangue, che scorre in contrasto col suo pallore, lo tormentano. Soltanto l’arrivo di Macduff, nato con parto cesareo, pone fine alla crudeltà del re.

Il maleficio di Macbeth

Con questa messinscena si evidenzia l’assenza di scampo dei presenti, in virtù del fatto che è tutta la dimensione distopica, il degrado allucinatorio di Macbeth, ad impedire di uscirne.

Riassumendo: quel che è fatto non può essere cambiato, né arrestato.

Così come Macbeth è preda del suo stesso incubo fatto di sangue e volontà di onnipotenza, così D’Elia lo è del suo stesso maleficio: la sua interpretazione risulta leggermente adombrata dalla spirale scenica d’insieme e della sua bravura come regista. La figura che interpreta è, per l’appunto, un’immagine distorta, un corpo risucchiato in un sogno dal quale non è in grado di uscire.

Svetta e si potenzia quando è con la sua Lady Macbeth, della quale è schiavo e vittima da sacrificare. Il duo prende luce pur restando nel buio, fra scena e costumi, principalmente vesti scure e caratteristiche dei rituali sacrali.

Insieme, i due sposi attuano delle preghiere al contrario, si amano appassionatamente e carnalmente, si modulano in rapporti mentali e carnali che sconvolgono chi guarda. Il sentimento che li unisce è subordinazione, e nemmeno l’amore può salvarli, poiché intriso di tossicità.

La sabba di Lady Macbeth

“Invocazione” è esattamente la parola che D’Elia sceglie per aprire una scena di Macbeth. Essa è rivolta alle forze più ancestrali e terribili, quelle del male. Un insieme di mistici sortilegi maligni che Lady Macbeth chiama su di sé affinché si avveri il presagio delle streghe.

La donna è la forza femminile dell’opera, forse la sola vera forza rappresentata. La bella performance di Salvucci la rende appieno con grazia, estro e follia maestra.
Esattamente come una delle sue altre pedine, la donna prende le vesti di ministra occulta. Sfrutta il marito, lo spoglia e lo possiede, in un dominio tanto mentale quanto fisico.

Tutto nasce ed è caos, e le azioni diventano superflue. I personaggi sono diaboliche caricature che appaiono e scompaiono. Come inquietanti visioni oniriche, ridono dal buio in cui sono nascoste. In quello stato ipnotico, quello di una notte senza fine, l’incubo assume molteplici forme.

Nulla è risparmiato dal maleficio, una sabba in cui il pubblico è suo malgrado partecipe. Dalle grida dei defunti, passando per risate perverse, cuori che battono, distorsioni luminose e sonore, parole della “vittima” Macbeth, fino ai gesti maniacali di Lady Macbeth.

Spudorata e manipolatrice liturgia ipnotica di vesti scure come il sangue che sgorga, è la regina delle tenebre che tesse le fila delle azioni del marito. Consacra e dissacra, strega dominante, sacerdotessa. Utilizza il corpo, che rende strumento di controllo, ad uso (e abuso) della debolezza e della paura di Macbeth. Lo istiga, poi lo consola, lo denigra, lo sacrifica. E così via via, in un tempo che si ripete, in un antico fuoco che disgrega ogni spiraglio di umanità.

Sorprendentemente però, lei che si è proclamata sacerdotessa delle forze invocate, si troverà poi a non saper gestirle, in un gioco più grande di sé.

Le tre streghe, diversamente, sono parche che rettificano il primo vaticinio, rivelandone il lato in precedenza celato. Ovvero quello dell’oblio del guerriero un dì fiero.

Cast e Tecnici

Oltre a D’Elia, Salvucci e Brambilla, nel cast ci sono Sabrina Caliri, Irene Consonni, Tommaso di Bernardo, Edoardo Montrasio, Denise Ponzo e Diego Saponara.

D’Elia è bravo, coinvolgente, tiene in permanente agitazione lo spettatore, anche grazie alla presenza scenica di Salvucci come Lady Macbeth. Brambilla convince e stupisce.
La prova degli attori è molto legata al sapiente uso di corpo, gestualità, prossemica e luci, nel rispetto dell’asse presenza-assenza-presenza sul palco.

La scenografia, tanto più spoglia ed essenziale quanto più funzionale e potente e magnetica, è di Fabrizio Palla con le grafiche di Chiara Salvucci.
Come anticipato, gli abiti di scena come sono toghe scure, tipiche di immediato riferimento all’atmosfera del rituale.

Benché mai nitide, le luci sono sigilli, spiragli mancati, che imprigionano ciò che intercorre fra le sue ombre. Esse sono curate da Francesca Brancaccio.
Anche l’azzeccatissima scelta di suoni e musiche, complessivamente in chiave metal gotico, affidata a Gabriele Copes, amplifica notevolmente la resa d’insieme.

Rito e incantesimo al contrario: nessuna pietas, resta solo un’anti catarsi

L’opera riesce poiché non vi è la pretesa ambiziosa di renderla un ennesimo rifacimento truce o tradizionale. La sfida registica è estrarre gli aspetti più oscuri della trama e riproporli in un turbinio frammentario e caotico.

Nel fuoco della scena, D’Elia sembra bruciare la trama per attizzare i suoi personaggi, privi della loro essenza umana. Sono le proiezioni stesse dei loro crimini.

In quest’ottica, il teatro riprende la sua originaria funzione di rituale, liturgia, e catarsi, ma ne stravolge le fondamenta. Senza discernimento e nell’impossibilità di opposizione e scelta, resta un abisso di perdizione, smarrimento e cenere.
I personaggi sono arsi da quella fiamma che consuma Macbeth/D’Elia e gli altri personaggi.

In un viaggio in cui la Compagnia ci accompagna alI’Inferno, non vi è possibilità, volontà e –forse– nemmeno possibilità, di redenzione.

Il pubblico, impreparato a ciò che avrebbe realmente visto, si ritrova nel pieno vortice della pazzia e della bramosia incontrollata dei conturbanti consorti. Poca, se non nessuna pietas e tanto terrore, in sintesi. Nessuna funzione apotropaica di liberazione dell’anima. Un’anti-catarsi, insomma.

L’Inferno: resta solo il buio. «La vita non è che un’ombra che cammina»

Alla fine dello spettacolo, D’Elia toglie i panni del “suo” Macbeth ed entra in quelli di quello più propriamente Shakespeariano. Stanco, riflessivo, prossimo al confronto con la sua dipartita. Lentamente, complice il sottofondo musicale più accogliente, ci riporta a una coerenza con una realtà più poetica. Nonostante il pessimismo. La “polverosa morte”, culmine di una vita che diventa buia, qui si avvia verso una maggiore luce.
«La vita non è che ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita per un’ora sul palcoscenico, e poi non si sente più, storia raccontata da un idiota, piena di suoni, e che non signica nulla», citava il celebre William.
Se lo riconosciamo come vero, è anche desumibile che sia la ricerca di luce la soluzione, il significato dell’esistenza. Forse.

L’Inferno che D’Elia riprende anche nei suoi “album” su Dante, è un tema caro a D’Elia. I suoni e le grida, il panico, le ombre e il costante gioco di ombre ne ricordano i gironi della prima Cantica. Questo permette al regista di analizzare gli aspetti più ferini dell’animo dell’uomo. Per poi avviarci verso una chiave di lettura personale, con cui decidere dove e fino a quanto scavare.

Esilio e silenzio

Il tema dell’esilio, destinato da Macbeth ai legittimi eredi al trono, pare svilupparsi parallelamente come auto-esilio del re scozzese.
Un’alienazione più mentale che fisica, dove la paura autoalimenta le sue fobie (ansiosi, 5 punti ai Griffondoro se -mi -vi riconoscete – in questa frase? -n.d.r.). La sua mente è la sua prigione. D’un tratto, alla fine della tragedia stessa, dopo una musica di nuovo potente, il silenzio torna a regnare.
Quel silenzio che sa, finalmente, di pausa, di pace (per le orecchie, frastornate dai suoni a mo’ post discoteca nel 2004, quando Nelly chiudeva la serata -off topic e n.d.r.-), di luce, di ritorno al proprio caos. Quello che forse, ci esorta a riflettere sulla vera oscurità che viviamo ogni giorno: la cattiveria umana che può risucchiarci tutti.

Ma il teatro è sempre riflesso amplificato di vizi e virtù umane, perciò, chi meglio di Shakespeare avrebbe potuto riportarci alla pur poetica brutalità dell’oscurità umana?

E chi meglio di un attore e regista così ricco di visioni come Corrado avrebbe potuto portare alla luce (o riportar nell’ombra? -n.d.r.-) quegli stessi vizi e virtù?

(Penso, fra me e me: stai a vedere che fra tanta disumanità rappresentata, senza parvenza di senso, si giunge a dar senso a quella che ne avrebbe, per svelare quel poco di umanità che si rivela oltre le ombre? -n.d.r.-)

Per concludere, cari lettori, posso assicurarVi che quando si esce dalla sala, se ci si è abbandonati allo spettacolo, o al sogno orripilante e occulto di Macbeth, vi si esce storditi. Alla ricerca di una spiegazione razionale a quanto si è assistito. Che si svela solo nel silenzio in cui ci si abbandona e si accetta che, alla fine, era solo un (ben riuscito) incubo.

Veronica Fino

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*