Tre attori, il numero pitagoricamente perfetto trovato da Sofocle, sono perfetti sulla superficie bianca del palcoscenico. Sono tre biglie pronte a formare geometrie sul tavolo da biliardo, a chiudere tutta la carica dionisiaca prima nella stecca, poi nei percorsi forzati della geometria euclidea. Il testo puskiniano di Mozart e Salieri diviene un meraviglioso spunto metateatrale per ragionare sul senso della recitazione, e così il lavoro dell’attore su stesso diventa fatalmente il lavoro sulla nevrosi quotidiana, su quelle ferite sull’anima che proprio non ne vogliono sapere di guarire. D’altra parte, il tema intorno a cui gira l’opera è quello dell’invidia, e, fedele all’etimologia della parola, questo spettacolo segue l’in-videre, il guardare dentro, offrendoci, in trasparenza, il tormentato spirito degli interpreti. Parafrasando Tolstoj, ognuno è infelice a modo suo, e ha un disperato bisogno di comunicare il proprio stato, magari in maniera involontaria, attraverso la bocca dell’inconscio, fatta di dolori alla spalla, di toni che improvvisamente si alzano, di gesti non controllati, di piccole e grandi psicopatologie del quotidiano che vivono i tre personaggi.
Uno interpreterà un Mozart, ma un Mozart per la televisione, tagliato giù un tot al chilo per sfamare l’appetito dei telespettatori. E’ un cristallo di carne, un baco da seta il cui bozzolo è sempre sul punto di rompersi, si muove nervosamente sul palcoscenico, come una cavia da laboratorio, vittima predestinata di una sorta di esperimento involontario pavloviano, in cui a salivare non c’è il cane laboratoriale, ma un essere umano la cui paura mangia l’anima, lentamente, senza fretta, come farebbe un ruminante con il foraggio. Il suo compagno, un boy che lavora dietro le quinte della band, che ha le conoscenze giuste, che intreccia le sue relazioni sociali con aracnica pazienza, è il king’s maker, l’uomo che sa quanto la mediocritas sia la medicina omeopatica per un certo pubblico. Litiga, punzecchia, tira fuori certe voci mozartiane di testa, e, al momento giusto, sa diventare un altro; torna a essere il più grande volontario atto mancato, un personaggio cechoviano che, a un certo punto, sceglie il silenzio, di svelare, tutto d’un botto, tutti i sottotesti. Diventa una sorta di deus ex machina carrucolato in una cucina con troppe barbabietole e poca stagnola, che dice la verità, sollecitato da schiaffi socratici verbali, finisce col raccontarla.
Anche se con essa ci si taglia terribilmente, rimane, per sua natura, catartica. E poi c’è il terzo uomo, l’attore sull’orlo di una crisi di nervi, che è fallito, certo, ma ci vuole tanto talento per fallire nel modo migliore. Rappresenta l’ultima resistenza opposta dall’off dell’off theatre, l’ultimo giapponese nella giungla, che proprio non ne vuole sapere del fatto che la guerra sia finita. Interpreterà nella serie tv Salieri, e Salieri ha delle ragioni che la ragione di Mozart non conosce, In un meraviglioso gioco di rovesciamento, qui il genio nascosto e ribelle sta dall’altra parte. E giù in platea ci si siede, con meravigliata soddisfazione, dalla parte brechtiana del torto. E’ un convitato di pietra che si invita da solo all’eterna borghese, bu̴ñueliana cena, più mancata dell’arrivo del Godot beckettiano.
Francesco d’Amore, autore anche della drammaturgia, è un Mozart metateatrale che sa di non sapere, e questa consapevolezza, questo horror vacui lo tormenta, e si divide nei mille rivoli di tante piccole, grandi nevrosi. E la sua doccia canoviana non sarà in grado di lavargli via l’odore della sua paura. Michele Altamura, che firma anche la regia insieme all’altro interprete, Gabriele Paolocà, esprime efficacemente tutto lo spirto guerrier ch’entro gli rugge. Incarna l’ attore che proprio non ci sta al fatto che qualcuno abbia chiamato gli ultimi giri, proprio quando la partita a poker esistenziale cominciava a farsi terribilmente interessante. Incalzante, inesorabile, scomodo e insieme enigmatico, irrompe con la potenza distruttiva di un personaggio pinteriano. Gabriele Paolocà cucina letteralmente le sue battute, il suo testo, sposa con arte i vari ingredienti, tenendo conto della regola dei grandi chef stellati, quella di far condividere gli opposti. Come un abile giocoliere, tiene in equilibrio la risata e il dramma, tira sapientemente i fili dietro le quinte, è l’inesorabile burattinaio, che ha i segni dei fili che si è strappato quando ha deciso di non essere più un burattino. Si è reinventato il gioco pirandelliano della recita cosciente, è un Enrico IV che esercita il suo ruolo di press agent tra le quattro mura della cucina. Ma il quarto protagonista, sempre presente quanto l’odore insistente delle barbabietole, è il livore citato nel titolo, quel colore giallo plumbeo, la tonalità dell’invidia, del rancore, di quel capitale di vita dell’anima rimasto lì per troppi anni, e che è pronto a esplodere nei gesti e nelle bocche degli interpreti di questa piece, lo stesso meccanismo che anima i personaggi cechoviani. Sono tutti meritati i ripetuti applausi a questi attori, che mostrano la verità nuda e cruda come un uomo sotto la doccia.
Danilo Caravà
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