
<<Normalità, che brutta parola!>> esordiva la pretta nonna in Mine Vaganti di Ferzan Özpetek.
Ed è proprio l’aspirazione alla normalità che conduce alla menzogna. Una menzogna che praticata con l’assiduità del quotidiano si tramuta in arte che può far male, Stendhal docet.
Sedie scompigliate, su una scena essenziale e buia, fanno da sfondo a una storia. Ma partiamo dall’inizio, come suggerisce il concitato protagonista del monologo sulla menzogna.
Perfettamente in linea, quantomeno semanticamente, con la stagione teatrale in corso delle Manifatture Teatrali Milanesi, L’arte della menzogna di Valeria Cavalli indaga il peso delle convenzioni. Come edificare un’identità stipati sotto l’incombenza della comparazione? Come contrastare l’isomorfismo espanso delle conformismo o dell’anticonformismo?
Diego, interpretato sapientemente da Andrea Robbiano, è servomeccanico di un’identità che fatica a gestire poiché incapace di darsi voce vera.
Quando parla dice solo bugie.
Disconosciuto, non riconosciuto, spintonato da una forza di inerzia orientata alla mutevole, contraddittoria e incessante ridefinizione del sé, Robbiano ripercorre con climax efficaci di ritmi e volumi le vicende di una vita che incrocia il proprio riconoscimento.
Volendo sintetizzarlo, il quesito pressoché irrisolvibile proposto al protagonista de L’arte della menzogna reciterebbe laconicamente: “Chi sei tu? “.
Posto che chiedersi chi sei tu ha senso solo in presenza della possibilità di essere qualcosa di diverso da sé, di una possibilità di scelta e di avere un ruolo attivo in tale scelta, Valeria Cavalli offre un baluginio di trionfo del vero in un finale che rivela un rovescio.
Quando parla, Diego, dice solo bugie. O cose importanti.
Normalità, talvolta, non è poi una così brutta parola. Lo è la sua negazione.
Alessandra Cutillo
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