“La banca dei sogni”: recensione e intervista a Francesca Merli

francesca merli
foto Serena Pea

La Banca dei Sogni: il viaggio umano in un mondo onirico che universalizza desideri, incubi e fantasie

Lo spettacolo di Francesca Merli e Laura Serena colpisce e fa riflettere il pubblico per la potenza dei suoi sogni  

Cari Amici di ProfAmà,

torna il nostro appuntamento finalmente! E scelgo di farlo attraverso lo spettacolo “La Banca dei Sogni”, uno splendido esempio del teatro che si inserisce profondamente nel tessuto sociale perché entra visceralmente nel tessuto umano dello spettatore.

Questo spazio di Milanoteatri lascia libere le parole dei protagonisti di teatro, e questa volta ho scelto di raccontarvi un po’ delle parole di Francesca Merli di Domesticalchimia.

Buona lettura!

“La Banca dei Sogni” è lo spettacolo di Domesticalchimia composta dal duo femminile Francesca Merli (regista) e Laura Serena (attrice) andato in scena al Teatro Litta di Milano nei giorni scorsi pensato come analisi sociale avvenuta attraverso lo strumento del sogno. 

La rappresentazione è un esperimento ben riuscito di psico-teatralità, con l’ambizione di partire da un mondo intimo, come quello del sogno, appunto, per giungere a un ritratto più ampio di ciò che caratterizza le fasi della vita dell’uomo e quanto queste si riflettano in una proiezione più comune, nel tessuto collettivo.

In una scenografia spogliata del superfluo, con un grosso schermo alle spalle, un divano, delle sedie e pochissimi altri elementi scenici, ci troviamo ad assistere a piccole storie che si incastrano e si scombinano attraverso i due attori Marco Trotta e Laura Serena sul palco, fra due livelli. 

Il primo è il loro, che giungono in scena a breve distanza, parlando al pubblico nel più classico sfondamento della quarta parete. Pongono una delle domande fondamentali del teatro, chiedendosi se gli attori siano finti, o reali in quanto presenza fisica. Sono narratori delle storie che a loro volta raccontano, attori partecipi delle vite dei veri protagonisti, i sognatori.  Coloro che attori non sono, eppure raccontano le loro esperienze oniriche. Questo livello, che si coglie sul video, è quello che colpisce e ci colpisce. 

I sognatori assumono a personaggi, veri come e più delle loro storie, come dei nuovi “Sei” del capolavoro di Pirandello, a metà di un paradosso: non sono fisicamente presenti, benché estremamente reali, nella loro grandezza rispetto ai personaggi di Trotta e Serena, in un sapiente gioco di meta-teatralità partecipata e condivisa.

I due, in scena si spingono, ascoltano, si introducono nelle vite dei sognatori, e fanno loro da eco. 

A differenza delle storiche rappresentazioni precedenti dello spettacolo, dove dal progetto iniziale del 2018 hanno sempre partecipato fisicamente i sognatori in scena, questa versione è più “antologica”, per stessa ammissione di Merli, e sfida l’aspetto della combinazione teatro e video, con un ottimo risultato.

Il sogno nelle quatto fasi della vita umana

La narrazione si sposta nelle quattro fasi della vita umana sulla base di interviste.

Percepiamo il sogno del bambino di diventare un allevatore, contraddistinto dal suono forte e vivo (in parallelo con l’anima stesso del giovane sognatore) del campanaccio, e il viso sgomento dell’oncologa pediatrica “stanca di dare brutte notizie”, sentiamo il diversificarsi delle emozioni umane che spesso disattendono ciò che dovremmo provare, secondo le aspettative altrui, senza chiederci se e quanto dolore si celi dietro a una forma di reazione diversa rispetto alla nostra. Nondimeno, comprendiamo tanto quei genitori arrabbiati con la sorte e con i medici e comunque non riusciamo a giudicare il personale sanitario, poiché consci di quanto il loro lavoro sia prezioso. 

Tuttavia, dal dialogo dei protagonisti del primo video, riusciamo a cogliere l’umanissimo scontro fra il sentimento di impotenza e quello di speranza. Una speranza che si affievolisce per poi rinvigorirsi, più della paura di vedersi in uno specchio, come a ricordarci quanto siamo noi stessi a giudicarci e temerci più di ogni altra cosa. Nondimeno, a questo timore, si aggiunge la paura per il futuro incerto, che ci rende destabilizzati dall’assenza di certezze. Malgrado ciò, una volta accettate queste sensazioni, diventiamo, come il giovane gigante, più tenaci del dolore, che ci rende talvolta timidi, rossi in volto, come le gote del piccolo paziente. E più forti delle emozioni della vita, che affrontiamo, e impariamo a fare, giorno per giorno, insegnando anche ai più grandi il valore di chi ti segue, senza chiedere niente. 

Da quei genitori, il passaggio è quello degli anni di formazione, dell’adolescenza e alla ricerca del lavoro. I protagonisti sono un ventinovenne affetto da Asperger e un ragazzo ben più giovane, amante della forma fisica come strumento di autoaffermazione positiva, rispetto ai coetanei persi fra droghe e alcol. Il sorriso scambiato fra il sorriso del primo e il giovane dai profondi occhi blu ruba la scena. Entrambi hanno sogni diversi, come diverse sono le loro età, ma hanno altresì motivazioni coerenti con i loro percorsi di vita. Il primo cerca di trovare un modo per aiutare le persone affette da disabilità motoria con rampe di lego che costruisce personalmente, e vuole quindi diventare un eroe come Mario Bros, attorniato da amici sinceri, senza prepotenze, e il secondo per estraniarsi dalle amicizie potenzialmente sbagliate. In un senso lato, quelle cannibalizzanti che avrebbero potuto renderlo esattamente uno dei bulli del nuovo amico al colloquio con lui. 

Si svela un bisogno di sentisi parte di qualcosa, di un gruppo, apparentemente opposto alla necessità di relazionarsi con persone diverse. E, ancora più profondo, la necessità di affermarsi in una propria indipendenza che solo un lavoro può dare. Anche se faticoso. I due attori, ora addetti alla selezione per un lavoro da cantiere, discutono del futuro dei figli, con le inevitabili perplessità legate alle carriere ipotetiche, al “lavoro dei sogni” che spesso non si rivela tale,  trovandosi quindi a riflettere sui propri sogni, talvolta riversati, talvolta riposti in un dimenticatoio dalle porte scricchiolanti. 

Il passaggio all’età adulta è un vortice di sogni e incubi, passioni inespresse che si nascondono più nel profondo, in un caos di luci e ombre che colorano i fumi di una vibrante tonalità di rosso, che evidenzia il contrasto dei costumi di scena e risalta il sognatore protagonista, in un’atmosfera di musica elettronica, dance che volutamente confonde le menti dei personaggi. Moreno, il sognatore che cerca di conoscere gli incubi degli altri, è vittima e preda si sé, di una parte quasi naïve dei suoi demoni che governano il suo incubo peggiore: il ricordo del dramma del terremoto di Amatrice. Un terremoto che scuote scena e fuori scena, riportando a sé il valore di un paio di oggetti comuni, che rappresentano come le cose possano sfuggire di mano, distruggersi, portando via la naturalezza della gioventù, lasciando traumi che ci cambiano profondamente. Più delle crepe in un muro. È così che un divano diventa riparo e appiglio al ricordo, e che uno zaino è un potente oggetto di scena che Merli con sapienza semantizza, donandogli l’evocazione della storia di uno dei sognatori che, né  fisicamente né in video, è presente. Kalil è il protagonista di cui non si vede nulla, a differenza degli altri, si scopre la sua storia grazie agli attori che tornano ad essere “fuori dalle parti”. Un uomo scappato dal proprio Paese di origine (Marocco) venuto a cercare un’opportunità di lavoro e vita diversa, in Italia. Senza più una casa, gli è rimasto “solo” uno zaino.  Il timore di essersi ammalato coincide con quello dei due di non trovare più quel suo bagaglio e di non trovare, di rimando, nient’altro che quel suo stesso bagaglio nero, pieno di sogni, di ricordi, di pensieri al padre abile nell’addestrare cavalli, di casa e di vita passata che si sgretola come la stessa sabbia che ne esce. Un’immagine struggente ed estremamente evocativa, come le sue parole: « nello zaino ho tutto: non c’è niente ». La domanda, implicita, sulla profonda dignità che trapela dalle parole di uno degli ultimi è un richiamo all’umanità che si apre e svela su una tematica estremamente attuale. Quella dei dimenticati, degli invisibili, di cui ci si ricorda più per mostrarsi perbene, nell’aiutare, che nella volontà di ascoltarli, forse comprenderli, ma certamente vederli ed accoglierli. Eppure, visibile, Kalil lo diventa proprio attraverso la sua assenza narrata dallo spazio occupato dalle sue parole, così evidenti che risulterebbe impossibile leggerle. Vederle, di nuovo, e considerarle. 

L’ultima parte della narrazione si sposta nei sogni senili. La donna in video è la figlia di una donna anziana, affetta da demenza. Serena si spoglia del suo io per diventare quella madre, che ricorda gli anni felici con il marito, nonché padre della donna sullo schermo. Le sue parole parlano del forte legame dei due, mentre veniamo a conoscenza del doloroso percorso di abusi che quei sogni le rivelarono. Un percorso di continui sbalzi temporali in cui il tradimento del cervello da parte della malattia doni un rifugio dove trovare un mondo più clemente di quello in cui la realtà è stata caratterizzata dalla morte. Infine, il ritorno alla verità fuori dal sogno non è che un istante di disperazione in cui si ribaltano i ruoli fra genitori e figli. 

Racconto del racconto: i sogni come specchio della natura universale dell’uomo 

“Lei analizza i loro sogni… Io do loro il coraggio di sognare ancora” dice Moreno in ideale replica a Freud. Si rinnova la volontariamente mancata ricerca di comprendere in modo così mirato il sogno, ma di farne un estratto sulla base della vitalità che essi comportano. 

In un’ottica di osservazione sociale, nella “banca” ogni sognatore ha una sua percezione, un suo trascorso interiore ed esteriore, a volte in conflitto, altre esplicitato e raccolto in un sorriso luminoso. 

Si tratta di due facce della stessa medaglia, dove tutti passiamo dalla vita ordinaria, a quella delle aspirazioni, potenziali narratori dei nostri mondi onirici dove divenire attori ad essi partecipi. 

I sogni diventano necessità, bisogni, desideri, angoscia e tormento, spesso contraddistinguendo ogni stagione della vita, condizionata dalla realtà del vissuto quotidiano. Perché dalla realtà,  “la Banca dei Sogni” pare suggerire, siamo risucchiati, velati, oppressi, rispecchiati, illuminati, come lo sono sapientemente i personaggi sul palco, siamo anche condizionati per la vita dei nostri sogni. Quantomai essenziali per descrivere ciò che siamo. 

Più che mai, però, i sogni sono quel deposito dove la parte più intima del nostro vissuto si struttura e destruttura, in un percorso che in gioventù si apre al mondo dove vivere ambendo ad un connubio di pace e salute, e che nella terza età si chiude rispetto al mondo per ritrovare quello stesso connubio rinnovato e intriso di esperienze personali.

Naturalmente, subentrano nella dinamica del racconto la soggettività, la capacità di rielaborare e la volontà medesima di raccontare quel mondo rivelatore. 

Il punto centrale è mostrare come la storia del singolo non si possa esimere, per quanto via via diversa in base alle esperienze soggettive, da quella degli altri, perciò di noi tutti. 

Ciò vale per tutti i vari aspetti: sogni, malattia, disabilità e morte.

Alla base di ogni storia della Trilogia, sembra suggerire l’insieme dei racconti, resta l’amore, che si svela nelle più svariate forme, e traspare anche nelle parole più disperate di alcuni sognatori. Perduto, desiderato, devastato, condiviso, reciproco, incompiuto, ricordato, insperato, vissuto: è l’amore che ancora è capace di governare l’esistenza umana, diventandone il bisogno primario.

E come per ognuno di loro si scopre questa l’essenza dei loro sogni, questo si rivela più universale, profondamente condiviso, poiché ognuno di loro tocca almeno un frammento del nostro vissuto.

Questo teatro che documenta e nel ri-articolarsi con coraggio sfida il paradigma ordinario del teatro, col rischio di far apparire disgiunti gli interventi degli attori-personaggi rispetto alle storie narrate, fra un registro comico e un ballo esilarante, trova il favore e la sua ragione d’essere nel meccanismo umano che innesca nel pubblico di adesione. Una forma di pietas che si ripresenta nei sub-livelli di coscienza, creando dunque una profonda connessione con gli aspetti di una società che pare perdersi e ritrovarsi allo stesso tempo in quei meccanismi di rivelato e riscoperto. 

Quello di Merli-Serena è un sapiente gioco di luci, narrazioni degli spazi teatralizzati, di oggetti, di colori che avvolge con le sue atmosfere intime e abbandona le formalità più razionali del pensiero dando alla materia del sogno non un “nuovo” spazio, bensì lo spazio vitale e imprescindibile poco riconosciuto. Uno spazio dove la finzione non riesce a farsi largo, in un teatro che trova strade e nuove e approfondite radici nella vita reale, lo intervista e rielabora infine il trascorso in suggestivi termini spettacolari. 

La Trilogia della Realtà attraverso le parole di Francesca Merli 

Come detto, i sogni sono in sostanza delle proiezioni di quelli che sono i bisogni primari. 

“La Banca dei Sogni” nasce nel 2018 da uno spettacolo che inseriva due attori professionisti con un gruppo di persone che raccontavano i propri sogni ed erano presenti sul palco, poi via via divenuti protagonisti attraverso l’uso dei video. 

Legate alla forma del giornalismo d’inchiesta, Merli e Serena aggiungono uno strumento comunicativo che non appartiene al teatro tradizionale, e che, anzi, sovente è stato considerato nemico del teatro in quanto cambiano nella relazione 1:1 con lo spettatore. 

Il progetto di un percorso di ricerca teatrale attraverso questo tipo di analisi e messa in scena con la multimedialità rientra nella Trilogia di spettacoli “Trilogia della Realtà”. In essa vi sono anche “In stato di grazia” e “Ci vuole un po’ per poter vivere”, attualmente previsto per l’inizio del 2026.

“La Banca dei Sogni” nasce ispirato dal libro omonimo di Duvignaud e Corbeau, antropologi francesi che analizzarono negli anni ’70 la loro società suddivisa in specifiche e distinte classi di lavoratori e casalinghe attraverso i loro sogni. Con una forma di sensibilità pratica, senza cioè la parte emotiva che di norma vi associamo. Il lavoro di Merli, invece, sposta la sua attenzione in base ai quattro stadi dell’età evolutiva dell’uomo. 

Durante un piacevole scambio di pensieri con la regista, ci ha raccontato che… 

FM: «Dopo anni a girare per l’Italia, a un certo punto io e Laura abbiamo deciso di ritornare un po’ a casa in Veneto, e abbiamo deciso di fare una versione di raccolta della Banca dei Sogni, che potesse andare in tutta Italia e che in qualche modo i sognatori coinvolti fossero in video, non più sempre con noi in scena. Anche perché volevamo in qualche modo raccontare la nostra indagine anche attraverso il mezzo video, uno degli altri nostri linguaggi che utilizziamo, che nella trilogia usiamo spesso. L’abbiamo fatto ne “In stato di grazia” e lo faremo anche con il nuovo spettacolo.

 Il sogno è una lente di ingrandimento sulla nostra società 

Ci piace dire così, pur non essendo né antropologhe né psicologhe, ma teatranti. Non analizziamo i sogni da un punto di vista freudiano, ma da un punto di vista della società, del reale, cioè come i sogni possono dirci, possono raccontare qualcosa di più di noi.

E negli anni abbiamo anche scoperto, studiato, che alla fine questi sogni sono anche una manipolazione del reale: le persone, quando raccontano un sogno, già fanno il racconto del racconto, non so come dire. C’è una sorta di testo, di copione teatrale anche nel raccontare il sogno, perché devi in qualche modo poterlo rendere logico, anche se non è logico, a un interlocutore che ti ascolta. Negli anni ci sono capitate tantissime cose, anche storie molto forti. Ad esempio, un’anziana che conobbi tanti anni fa, ci disse di un sogno dove i ladri la derubavano, ma lei chiedeva a loro di rimanere. Questo perché era sola.

Quindi ogni sogno in realtà parla un po’ del contesto in cui noi andiamo, indaghiamo, intervistiamo queste persone e poi riportiamo nella scatola della grande bugia, come dice De Filippo, perché sì, usciamo fuori dalle mura teatrali come dei reporter a fare delle domande, ma poi tutto ciò che noi vediamo, registriamo, lo dobbiamo in qualche modo riportare con un linguaggio scenico. E in questo caso poi le persone compaiono in video, quindi anche attraverso un linguaggio cinematografico.»

La regista prosegue ancora:

«(Del libro -n.d.r.-) mi aveva colpito perché la loro indagine è molto scientifica, non c’è nessun trasporto, legge il sogno così com’è -anche un po’ noioso-, ma mi piaceva il loro punto di partenza. Questa coppia aveva perso un figlio, non riusciva a dormire e quindi inizia questa inchiesta. Mi interessava capire se poi ci sono anche dei punti di contatto. In realtà nelle varie città d’Italia alcuni punti di contatto dei sogni ci sono, anche se anche l’ambiente cambia il nostro sognare. Però ci sono dei punti di contatto: quando i bambini raccontano i sogni, iniziano a fantasticare un po’, gli adolescenti ricordano soprattutto la scuola, invece gli anziani invece tirano un po’ le fila della loro esistenza; è come se passato, memoria e vita si confondessero nei loro sogni. »

VF: « L’impressione è che siano legati al bisogno primario della persona, comunicare e relazionarsi; a volte credo che sia un po’ un problema a livello sociale, poiché non ci rendiamo conto che siamo individui in una società di altri individui e ci creiamo un noi, e allo stesso modo, fondamentalmente si parte da quello stesso uno per poi arrivare a un insieme di tutti. Punto comune dove ognuno è sempre un piccolo tassello. Parlando dei sogni della vita o dell’evoluzione della vita, anche nella delicata sfera della disabilità, di come viene vissuta e erroneamente percepita quale filtro deformante di ciò si teme, emergono le stesse esigenze. Pur con strumenti diversi per affrontarle, il bisogno umano principale è quello affettivo. Anche qui si ripresentano forme di universalità che si concludono con la tematica della morte. 

È, dunque, l’universalità a monte intrinseca della persona che si esplicita in modo diverso per tutti il trait-d’union del progetto? »

FM: « Sì, è dal 2018 che lavoriamo con i tre spettacoli della “Trilogia della Realtà”: hai proprio centrato la questione. Sono temi che vanno a colpire l’esistenza, come in realtà tutti gli spettacoli per carità, però si parla un po’ di quello che dici tu, dei sogni non come desiderio attraverso l’attività onirica ma di bisogno; ne “In stato di grazia” si parla di disabilità o comunque delle persone che hanno delle difficoltà. E parla, in realtà, proprio d’amore, -bravissima-, e del rapporto d’affetto tra genitori e ragazzi. Infine, giungiamo alla perdita, al lutto, nello spettacolo “ci vuole un po’ per poter vivere”. Un lavoro singolare: la protagonista è una donna, un’attrice, che ha perso il suo compagno e che cerca di rielaborare questa perdita attraverso il racconto di tutto quello che non si dice mai. Delle figure di cui non si parla mai.

 Appunto vado proprio a intervistare, perché questo è il nostro linguaggio, quelle persone che nella vita speri di vedere mai, no? Quindi ad esempio necrofori, tanato-esteti, e si parla della morte in maniera un po’ reale, concreta per preparare le altre persone, forse per aiutare loro e se stessa »

VF: « Se ci pensiamo bene, di nuovo, compare la paura ancestrale dell’uomo di affrontare alcune figure o, come detto, situazioni di malattia perché in questo modo le estromettiamo dalla nostra sfera di percezione, come ad esorcizzarle e mantenerle così, benché sovente solo idealmente, lontane da noi. Siamo guidati da una forma di evitamento onde ovviare, credo, la pur consapevole forma di dolore che lutti e malattie comportano per tutti noi. Riguardo agli anziani, molto spesso le persone che hanno delle demenze attuano loro malgrado un’alterazione del reale, tale per cui io credo che i sogni siano giochi della mente. Essa a volte va inficiando e realtà tutte nuove e mi chiedo se non ci possa essere anche una dimensione onirica a mutare ulteriormente o pescare da qualche parte e riproiettare diversamente nella loro mente. Domande che sfortunatamente oggi trovano più pazienti che risposte…»

FM: « Nella terza età di questa “Banca dei Sogni” parlo proprio di questo e delle verità che possono emergere persino in queste dinamiche… » 

Parliamo ancora un po’, io e Francesca; fra i momenti di intermezzo profondamente personale come il ricordo della mia nonna e della “sua” interpretazione dei sogni, dalle sue parole gentili e della sua empatia traspare e trasmette una grande tranquillità. 

Passiamo all’argomento più temuto, eppure il più fisiologico fra tutti, quello della morte. 

FM: « Per quanto concerne la fase della terza età e, quindi, della morte, usando le professioni che se ne occupano in termini quotidiani, evidenziamo l’importanza di viverla anche attraverso un concretezza simile a quella degli antropologi. »

Di nuovo, emerge il principio di universalità, poiché le persone che la vivono percepiscono anche questo filtro, che naturalmente è diverso dal dolore diretto per una perdita.

VF: « un po’ come fosse una forma di ordinario diversa »

Continua Merli : « esattamente, più naturale e forse percepita con una forma meno spaventosa. »

VF: « personalmente, io vivo la morte come una forma di continuità, mi piace parlare con chi non c’è più, anche se sfortunatamente non riesco a sognarli. Suppongo però  che i sogni, ahimè o per fortuna, non lo so, si vadano disegnando un pochino su quelli che sono i nostri sovrappensieri. »

Il nostro patto a conclusione della piacevole chiacchierata è di assistere al nuovo spettacolo del duo Francesca e Laura nel corso del prossimo anno, che sarà nuovamente prodotta dal Teatro Stabile del Veneto in cooperazione di Trento Spettacoli.

Teatro e sogno: due modi per vivere il mondo

La parola sogno evoca un mondo misterioso, in cui mente e inconscio si incontrano creando  liberamente immagini, emozioni e sensazioni che trasportano in un’altra dimensione, sovente sospesa tra passato e futuro immagini. 

La tematica non è, come noto, una novità nel panorama del teatro e, più in generale, dell’arte. Basti pensare agli spazi metafisici o al surrealismo in pittura, presente in particolare in De Chirico, Matisse, Chagall e Dalì. Andando più a ritroso, il mondo onirico si è manifestato, ad esempio, in Escher, Picasso, Jan Styka (1858-1925), a cui va particolare menzione per il suo “Sogno dei volontari polacchi nelle trincee francesi”, Previati, Bryullov con il suo “sogno della nonna e della nipote”(1829), Ingres, Rembrandt, Tintoretto, Vasari, Raffaello, Dürer, fino ad arrivare al “sogno di Innocenzo III” di Giotto. 

Il sogno è anche uno dei topos più tipici della letteratura: basti pensare alle epiche premonizioni in merito al ritorno di Ulisse di Penelope dell’Odissea, al salvifico sogno di Enea che lo strappa a Troia, a Lucrezio, alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, al sogno dell’Orlando Furioso di Ariosto, alla “Divina Commedia” dantesca, passando per l’eroe della Mancia di Cervantes”Don Chisciotte” Leopardi, Pascoli, Shelley, Svevo, Pirandello ne “Sogno (ma forse no)”, rinnovandosi poi nel “Ciclo dei sogni”, opera in stile fantasy di Lovecraft. I simbolisti, inoltre, con il loro linguaggio analogico fra metafora, analogia e sinestes ie mettono in relazione più elementi su differenti livelli. 

Innumerevoli, pertanto, sono le trame che i sogni innescano e ispirano in filosofia, psicanalisi (ineludibile menzionare Freud) e nel cinema, grazie alla simbologia correlata. 

Il sogno accompagna anche la drammaturgia, da quella classica del teatro arcaico, come “Persiani” e “Agamennone” di Eschilo, nondimeno a “Edipo Re” di Sofocle e “Elena” di Euripide; fra le altre opere, “La vita è sogno”, il dramma filosofico teologico di Calderòn de La Barca, giungendo alle vette più alte con “Amleto” di Shakespeare, Kafka e Jarry Ma questi sono solo alcuni dei nomi più influenti e impattanti sull’argomento. Shakespeare è uno dei maggiori autori che ha saputo rappresentare la tematica onirica. Sembra voler mostrare attraverso parole e immagini la complessità del tema, “Amleto”, “Sogno di una notte di mezza Estate” sono le due principali opere che affrontano la questione. Il Bardo intuisce una riflessione meta-teatrale su natura e funzionamento del dramma partendo dalla messa in scena del sogno, la cui funzione rappresenta un monito rivelatore per i personaggi. Nelle commedie come “Questi fantasmi” dell’immenso Eduardo De Filippo la ricerca di una realtà migliore si svela attraverso desideri e illusioni funzionali alla ricerca di fuga dalle vicissitudini della vita. 

La funzione del teatro, non a caso, è rendere rappresentabile e dunque pensabile ciò che nella realtà quotidiana si esprime con reticenze o difficoltà. Dalle sue origini nel mito, il teatro porta sul palco l’essere umano non riesce ad arrivare e dà una forma a ciò che solitamente forma non ha. 

Parallelamente all’azione del sognare, quella dell’andare a teatro (nondimeno sognare a teatro) è un’esperienza che trasforma e conduce lo spettatore (o il sognatore) ad una più ampia consapevolezza di sé e del mondo. Come il sogno, il teatro è un luogo-non luogo che simboleggia una forma di altrove, alternativa a una realtà più limitante e che non concede possibilità di desideri, fantasia e lo sviluppo delle  svariate potenzialità dell’essere umano.

Con le cartografie della realtà e la ricerca di radiografie sociali, Merli e Serena, insieme alla drammaturgia di Matteo Luoni, scelgono un percorso di suggestioni comuni attraverso la multimedialità che contraddistingue il nostro stesso tessuto sociale, ed è per questo che funziona e resta vivo nella mente di chi vi assiste. 

« Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo di un sogno è raccolta la nostra breve vita », affermava Shakespeare ne “La Tempesta”, in una celebre citazione capace di superare il tempo, anticiparlo e adattarvisi. Sono i sogni che ci permettono di dare una forma più alta di significato all’esistenza, per sua natura caduca. Perché allora non continuare a sognare, pescando proprio dalla nostra unicità, nella nostra banca?

Una banca che si fa teatro del nostro vissuto, trasformandosi reciprocamente in un teatro che si spinge oltre se stesso, sente l’urgenza di narrare il reale e poi torna a se stesso, più energico e carico di vita che mai.


Veronica  Fino

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