
Gianrico Tedeschi,
Un secolo, e non lo dimostra
Fa una certa impressione sgranare uno dopo l’altro gli anni per arrivare al secolo, sfogliare velocemente i calendari, o guardare idealmente in che modo cambia un paesaggio, come accade all’uomo sulla macchina del tempo su Welles, ma è quello che è successo esattamente all’attore Gianrico Tedeschi. E’ arrivato a cent’anni con la disinvoltura di Jenny dei pirati, che vede cadere le teste con un oplà. Forse, come suggerisce Sant’Agostino, il segreto del suo lungo tempo è conosciuto dal silenzio, da quel pausare sornioneggiante, da quelle sopracciglia folte, che si piegano con la forza del’arco di Ulisse ad ogni espressione, se provi ad interrogarlo, quella conoscenza si dissolve, e si scioglie in un sorriso. E Tedeschi non si limita a sorridere, fa di quel gesto, un atto filosofico, c’è tutto un silenzioso trattato in quel sorriso, la summa delle battute di un attore, la simpatica canaglieria mercuriale, pronta a far suonare davanti alla platea la preziosa moneta della recitazione.
Il suo segreto, insieme esistenziale ed attoriale è nella massima latina festina lente, in quell’affrettarsi lentamente, in quei gesti che acquisiscono una loro propria consapevolezza, e sembrano calare dal teatro orientale. Quelle smorfie, quel suo uggiolare, il fare del suono un gioco serio, la meravigliosa capacità di trovare, idealmente, la poesia nel cuore di cane di bulgakoviana memoria, rendono la sua recitazione un unicum irripetibile, un’impronta digitale che rimane pervicacemente come segno indelebile dei nostri palcoscenici e del nostro cinema.
La memoria fatalmente va alla messa in scena di Orazio Costa del ’69 del Gabbiano e a quel dialogo serrato, a quella sfida scacchistica interpretativa tra Tedeschi ed il giovane Lavia. Con curiosità apolinnea, con il mento appoggiato al bastone, e gli occhi di un rapace, Sorin non si limita ad osservare Trigorin ed il suo impeto dionisiaco, ma coglie quel momento come occasione metateatrale in cui l’attore, già esperto artigiano dell’arte, guarda con attenzione lo stile nuovo, vivace e febbricitante del giovane. E sa come usare i suoi ferri del mestiere con studiata cechoviana lentezza per valorizzare, attraverso il contrasto ed il contrappunto, una recitazione posta idealmente dalla parte opposta dell’arco costituzionale teatrale.
Si propone sempre, nell’azione scenica, come una sorta di centro gravitazionale di ponderazione, e usa sapientemente il suo archetto fonetico per far vivere al fonema quella vita lunga, insistita, vibrata, della nota sulla corda dello strumento ad arco. Lo si ricorda nelle mani di Strehler, nell’Opera da tre soldi, nella quale il grande maestro aveva avuto l’intuizione di prevedere la facilità di questo interprete nei confronti dello straniamento brechtiano, già insita in una natura che ama sostare nella battuta. E lo si rammenta nel ruolo di capocomico nella piece “Sei personaggi in cerca d’autore”, di nuovo con gli occhi curiosi da bambino, pronto a cogliere il canto del cigno teatrale di Enrico Maria Salerno, i suoi estremi sospiri nel ruolo di padre.
Lunga è anche la galleria dei personaggi cinematografici, e unica rimane, senza dubbio, la capacità di costruire caratteri in grado di portare in dote allo spettatore il valore aggiunto dato dalla suo personalissimo stile recitativo. Il suo cammeo nel Federale, nel ruolo del poeta Bardacci, ex insegnante di mistica fascista sospeso come un pauroso Socrate aristofanesco nella soffitta, rimane un personaggio archetipico che riunisce in sé, nello spazio di una manciata di minuti, una lunga teoria dei grandi personaggi della commedia, creati dalla sapiente formula alchemica in cui si sublimano la furbizia, la vigliaccheria, la fanfaronata, il lazzo, ed il carattere, in grado di plasmare il prezioso oro del personaggio. Il suo naso, un po’ cyranesco, che si presenta per primo al mondo sul davanzale del viso, le linee geometriche, descritte dalle guance e dalla lunga fossetta che traguarda sul labbro superiore, costruiscono una maschera naturale, fatta di un cuoio malleabile, che si presta a diventare espressione di ogni stato d’animo. La sua tristezza allegra lo rende personaggio naturale sia della commedia che della tragedia. E quando il suo volto si piega un po’ all’indietro, e gli occhi diventano due attente fessure, la sua vocalità si mostra in tutta la sua potenza, come esperto arciere, colpisce sempre il centro del bersaglio, si arricchisce di preziose note nasali, e veste con naturalità l’abito della battuta, che casca immancabilmente a pennello.
Gli auguri ad un uomo secolare devono necessariamente centuplicarsi, e l’elisir della sua vita, intrecciata definitivamente con la scena e con il cinema, è un liquore corroborante che fa bene non solo a chi lo distilla, ma anche a chi, dalla parte della platea lo può degustare a generose sorsate.
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