Cosa succederebbe se due uomini rimanessero bloccati in una fogna, o in bunker, circondati da cadaveri e con le riserve alimentari agli sgoccioli?
Cosa sarebbe accaduto se il mondo fosse finito proprio nell’anno in cui GLI IDEALI, quelli maiuscoli per diritto divino, sembravano poter trionfare?
Prova a domandarselo Gianni Hott nella bella pièce “Quando usciremo ovvero l’anno in cui il mondo finì”, in questi giorni al Teatro della Contraddizione. In scena due uomini, interpretati dagli ottimi Enrico Ballardini e Davide Gorla. Unici sopravvissuti ad una non meglio precisata disfatta militare, i due provano a ricostruire una micro – società basata sulla condivisione del poco spazio e del poco cibo disponibile (solo scatolette di fagioli).
Ma questo esperimento di collettivizzazione delle risorse, pur nell’esiguità del numero dei membri che compongono questa comunità microscopica, fallisce miseramente, riproponendo da subito lo sfacelo di quella società appena annientata proprio sopra le loro teste.
Questo, in breve, il tema della pièce, che richiama in modo piuttosto evidente la riflessione beckettiana sul rapporto uomo – società. Ma laddove Beckett proponeva uomini che vivevano in apparente distacco con il loro stesso mondo, qui l’inserimento sociale (o il desiderio di inserimento sociale) è sempre presente, bramato. E sempre presenti, anche se talvolta con esiti disastrosi, sono i temi dell’anarchia, del socialismo o di una sempre più impossibile ideologia.
Per sfuggire alla trappola di uno spettacolo eccessivamente filosofico e anacronistico, i due attori – registi compongono uno schema scenico denso di riuscitissimi approfondimenti sul lavoro fisico, fino ad arrivare, talvolta, a sfiorare la coreografia, sempre rimanendo in coerenza con le dinamiche narrative.
Appare evidente la provenienza improvvisativa dell’intera messinscena, tutta giocata in uno spazio semicircolare, piccolissimo, in cui campeggiano soltanto una piccola scaletta e decine di scatole di fagioli. E così come i due superstiti sono i padroni del neonato regno, i due attori si prendono l’intera responsabilità dell’esito dello spettacolo, lavorando sulla loro intesa, molto buona, su un ritmo non stratosferico ma intelligentemente sempre tenuto in equilibrio, su una buona costruzione di personaggi e relazioni.
Uno spettacolo intelligente e insolito, che però può essere goduto al cento per cento solo attraverso un’adeguata preparazione alla storia del Novecento, costantemente richiamata: dalla guerra di Spagna all’Unione Sovietica, dai kibbutz israeliani a concetti come anarchia e collettivizzazione. Un buon esperimento, in ogni caso, che può stimolare nello spettatore la curiosità ad una ricerca più approfondita.
Massimiliano Coralli
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