Una giornata al Festival del Silenzio

festival del silenzio
foto facebook Festival del Silenzio

Non si tratta di capire o non capire, al Festival del Silenzio si tratta di sapersi fare ascoltare. Paradossale per chi non è un nativo segnante, mettere insieme il silenzio e l’ascolto, due attività tanto umane quanto così poco praticate. Potete scoprirlo da voi, se non lo avete ancora fatto, alla prossima edizione di quello che ci auguriamo sia un Festival longevo. Sì perché non basta raccontarlo, raccontare il visto e il sentito dire, occorre arrivarci sulle proprie gambe, oltrepassare l’entrata dirigendosi verso un operatore, e per un attimo esitare: e ora come glielo dico? Lungo il tragitto hai dato per scontato che tutti parlano la tua lingua, sei in Italia, semplice. Ma per una volta invece, a due passi dalla biglietteria, sei tu la minoranza. Ti fai coraggio e ti avvicini. Buonasera! Squilla una voce dal desk. Tiri un respiro di sollievo e chiedi i tuoi biglietti.

La LIS, lingua dei segni italiana, non ha ancora un decreto legge che la riconosca a tutti gli effetti come lingua. Eppure ha un codice di comunicazione strutturato, serve a veicolare dei messaggi, e si declina in forma poetico narrativa. “Il Visual Vernacular è una tecnica narrativa utilizzata per raccontare storie in modo cinematografico utilizzando segni, gesti ed espressioni facciali che rappresentano personaggi e azioni” si legge nella spiegazione sulla brochure del Festival. E fin qui, tutto chiaro. Sono narratori dell’arte poetica quelli che vengono presentati al pubblico di Visual Sign Performances: Valentina Bani, Fabio Zamparo e Nikita Lymar, che si esibiscono con alcuni dei loro componimenti in Visual Vernacular. Spoiler: la stragrande maggioranza della sala non conosce la LIS, ma gli artisti lo scopriranno solo alla finale alzata di mano. Chi invece scopriva per la prima volta questa forma artistica, ne rimane incantato, pur avendo ricevuto come unico supporto di traduzione una trascrizione dei componimenti. Poche volte si torna con lo sguardo al foglio di carta, è sufficiente seguire il flusso della partitura composta da movimenti più o meno ampi degli arti, del viso e del busto per dispiegare una linea narrativa. Una danza che ricama nel silenzio l’eco sonora di ogni più piccolo gesto.

Meno silenziosa è invece la danza di Fattoria Vittadini. iLove, ideato ed eseguito da Cesare Benedetti e Riccardo Olivier, è uno spettacolo che ruota intorno a due personaggi maschili e a un finocchio. Ad avere la peggio sarà quest’ultimo quando verrà rumorosamente mangiato davanti a un microfono dagli interpreti. Un’ideazione coreografica che procede altalenando tra l’irriverenza di un capriccio bambino e la disperazione di un’assenza adulta, un cercarsi e respingersi che altro non è che l’indagine al microscopio delle forme umane del desiderio. E quel finocchio, a ben guardare, ha la forma di un cuore, di quel “cuore così bianco” che Shakespeare aveva dato a Lady Macbeth ancora innocente, come l’amore quando nasce che non sa ancora di esistere.

Alessandra Pace

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