Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.
Come un De Andrè privato della forza del verso in musica, Vladimir Olshansky fa sorgere fiori dalla spazzatura, generando bellezza dalle macerie del nostro vivere. Clown della malinconia, comici e tragici nello stesso istante, i protagonisti di Strange Games (oltre a Vladimir bisogna citare gli straordinari Carlo Decio e l’altro Olshansky, Yury) e si muovono all’interno di uno spazio metafisico, dove, accanto a divertentissime gags interattive, trovano posto echi di guerra, frammenti di solitudine, caos e assenza.
Si rimane spiazzati, entrando nella sala teatrale di Via Dini. Veniamo subito proiettati all’interno di uno spazio disordinato, quasi un cantiere, con cartacce sparse ovunque, anche in mezzo alle panche della platea e teli da imbianchino a formare la scatola del palcoscenico, quinte e fondale. Un paesaggio insolito, vagamente pinteriano, che viene subito ripulito da due clown spazzini. Lo ripuliscono, sì, salvo poi ributtarci addosso la spazzatura. Ci fanno ridere, con questo loro gioco, ma allo stesso tempo ci stanno dichiarando i loro intenti: noi e voi apparteniamo allo stesso ambiente, il teatro della vita, e non esiste possibilità di liberarci dalla parte sgradevole di noi. Possiamo fare pulizia ma non possiamo eliminarla del tutto e dobbiamo accettare che sia un’imprescindibile parte di noi.
Il gioco inizia così, e non si ferma più, in un continuo e talvolta ossimorico oscillare tra il bello e il brutto, tra il reale e l’onirico, tra l’attuale e l’eterno, tra la risata e la lacrima. Un grande studio illuminotecnico, con abbondante uso di gelatine colorate, fa mutare continuamente forma all’ambiente, senza quasi mai restituire una luce piena, salvo quando il pubblico è chiamato a diventare parte della performance.
Non c’è una storia da raccontare ma solo una proiezione scenica di mille frammenti di vita. E così viaggiamo insieme a personaggi enigmatici, come i due simil – alieni con un palloncino al posto del cervello (destinato inevitabilmente a scoppiare), marionette che, attraverso la rappresentazione di mostri giganteschi, portano al guinzaglio le nostre paure (qui esplicitate attraverso un enorme ragno), rumori e voci fuori campo che disegnano un continuo paesaggio sonoro, in perfetta continuità con i molti momenti di silenzio.
E soprattutto ci sono gli assolo di Vladimir Olshansky, che restituiscono magnificamente il profondo studio filosofico che muove lo spettacolo. Potremmo scrivere interi trattati sull’essere umano semplicemente analizzando la scena in cui il protagonista rimane incastrato, per sempre, tra due porte (vietato entrare e vietato uscire) o quella in cui lo stesso uomo prima scaccia un lupo che gli impedisce il sonno e poi lo richiama indietro, in un egoistico tentativo di lenire l’insonnia e un’indicibile solitudine.
Potremmo scriverne a lungo, ma non lo faremo. Perché l’incanto è difficile da spiegare e forse non bisogna nemmeno provare a farlo. Bisogna solo stare lì, con gli occhi spalancati e lucidi, fare fatica a trattenere le risate e subito dopo emozionarsi fino ad avere i brividi sulla pelle. Come fanno i bambini, in ogni istante della loro vita. E come abbiamo fatto tutti noi, per un’oretta, seduti sulle panche del Salone di Via Dini.
Massimiliano Coralli
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