
Un’immagine, più delle altre, emerge dal paesaggio della memoria, per testimoniare la vis interpretativa di un attore che ha fatto di un palcoscenico una vita intera, quella dello Jago, giocato in scena, alternativamente, con Gassman, del pensiero sulfureo, dotato di un’irresistibile forza carismatica di gravità, in grado di catturare la luce degli sguardi della platea. Proprio come un daimon socratico pungola e spinge lo spettatore ad affondare il bisturi dell’approfondimento su ogni singola battuta, su ogni fonema, arrivando ad essere una sorta di Democrito della recitazione, capace di trovare l’atomo fonetico, in cui coagulare le più abissali significanze. I suoi soffiati sono, foscolianamente, il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi, il dolce veleno versato idealmente nell’orecchio del padre di Amleto, si insinuano nel più profondo del nostro ascolto.
Al pari di un demone sotto la pelle, la sua vocalità cerca instancabilmente il cuore di tenebra dell’anima. Il suo Innominato dello sceneggiato bolchiano sembra prendere, nel famoso monologo notturno, la via affascinante ed impervia della presa di coscienza, il sacro momento in cui il personaggio, battuta dopo battuta, vive il suo cartesianissimo “je pense donc je suis”, trova il suo centro coscienziale, e poi lo nega, scoprendo radici inconsce più profonde, che germogliano nel terreno fecondo delle pause, nelle quali la vita psichica trova la sua estensione ben al di là del terreno della consapevolezza. Lacanianamente la sua recitazione, in quei punti di sospensione esprimo un io più profondo, una macchina inconscia di cui si può avvertire il sordo rumore. La voce ha sempre il sapore di un’artigianalità attenta, capace di rifinire il dettaglio, di una rotondità che non teme di sostare su un fonema, accresce volontariamente l’appetito dell’attesa della battuta che seguirà, da parte dello spettatore.
Il Ciampa pirandelliano, è rifinito con pazienza certosina da amanuense, si annuncia alla scena con la forza di un personaggio Noh, che trova l’assoluto nell’autocoscienza di ogni più piccolo movimento, esprime una tempesta, la quale sembra quasi immobile, ma proprio per questo ancor più minacciosa. Guarda con stupore lo stesso sguardo dei suoi ragionamenti, attraversa il testo scenico calibrando tutti i gesti, lentus in umbra, e graffia ad arte l’orecchio con dei picchi tonali ben studiati, in grado di essere contraltare, e necessario opposto eracliteo, alla calma ombrosa che li ha preceduti.
Il suo Militina cinematografico, l’operaio agée che ha perso il senno sulla luna futurista della catena di montaggio, è un quadro fiammingo, un ritratto ricco di piccoli e definitivi particolari, mostra l’inquietante verità, la sconvolgente razionalità del pensiero più profondamente deviato nell’irrazionalità. Produce con maestria un gioco interpretativo in cui, in quella parlata sonnecchiante, si intravede quasi una capacità divinatoria, nella quale il Prometeo metalmeccanico sconta, con le catene della follia, la luce che vuole portare nelle fabbrica attraverso il suo dire. Veste i panni del gesuita nel film In nome del Papa Re, e costruisce un meraviglioso teatralissimo villain, che riesce ad imporsi, come antitesi del personaggio di Manfredi, con la voce sottile, con la sordina di un potere dietro il potere, in grado di comandare la scena da dietro le quinte, e di mascherarsi di un sorriso sinistro, da brividi, motore primo aristotelico, necessariamente immobile, in grado di muovere le meccaniche, per nulla celestiali, dell’azione filmica. Il suo è un viso in cui le guance si sciolgono come in un quadro di Dalì, e sottolineano la persistenza del tempo, sembra un guanto da baseball rivoltato, invecchiato anzitempo per vestire con forza e con precocità i ruoli da vieux roi. Ha due piccoli occhi, due biglie vivacissime, affondate, naufragate nel mare magnum del volto, ma in grado di riemergere come tridente di Nettuno, capace di far terremotare le certezze dello spettatore.
Le labbra diventano due linee sottili, le forbici fatali delle Parche, sembrano prendere a rasoiate, lente e chirurgiche, il ventre molle dell’altrui ragionare, si sporgono leggermente, quasi a volersi esprimere in un’ideale bacio di Giuda per tradire, finalmente e definitivamente, la stanca esegesi dei personaggi, trovando una propria via interpretativa fatta di curve, ripensamenti, una via che rende il viaggio degno di essere vissuto, difficile ed insieme affascinante, quanto l’ascesa al monte Ventoso di Petrarca. Molierianamente ha recitato fino all’ultimo, ed escluso dalla terra consacrata della stabilità economica, vivendo la vergogna, condivisa con molti interpreti, di una pensione da fame, ha ottenuto il sostegno monetario previsto dalla legge Bacchelli. Appare dunque sacrosanto e necessario aggiungere a quell’obolo di Stato, il contributo della memoria e dell’omaggio, un capitale intangibile, spirituale, un serto di parole per onorare un interprete che ha reso il proprio nome sinonimo dell’essenza del teatro.
ma scrivere in una lingua comprensibile anche ai non radical chic no eh?