Recensione: “Appuntamento a Londra”

Londra
Foto Antonio Parrinello

Immaginate che, per un attimo, il sasso di Lacan dei significati sia sputato fuori dalla bocca del significante; e, andando ancora oltre, provate a dimenticare che, con buona pace di Korzybski, la mappa si scordi di essere semplice mappa, tramutandosi in nuovo territorio. Tutto ciò accade in questo spettacolo, dove la parola ritrova una sincera primarietà; anzi, essa diventa, a buon diritto, protagonista assoluta. In una camera d’albergo, luogo drammaturgicamente archetipico dove possono riuscire esperimenti antropologici, un uomo e una donna si confrontano. Fin qui, apparentemente, niente di strano o particolare; ma la novità – e qui occorre un plauso all’autore di “Appuntamento a Londra”, Mario Vargas Llosa – è il fatto che, attraverso la dialettica dei due personaggi, frani la logica aristotelica, deragli il principio di identità. Le comfort zones dell’esegesi vengono decisamente abbattute, in questo spazio che, visivamente, si candida ad essere uno di quei paesaggi di confronto delle solitudini, così ben rappresentati da Hopper. Il linguaggio perde, espelle, deliberatamente, con sforzo, con un dolore da colica renale, il calcolo del logos, per riappropriarsi della sua atavica potenza evocatrice, riconquistando l’identità di mythos. Esistere è farsi, diceva Pirandello; e, in questo caso, si potrebbe affermare che esistere sia dirsi, raccontarsi.

L’unica cosa davvero certa in questa stanza, dove il dubbio metodico corrode, via via, i vari strati di menzogna o rimozione psicanalitica, è la parola, che però cangia, muta continuamente il suo corpo. Si mostra in tutta la scissione di colore che potrebbe causare un prisma di cristallo alla luce che lo attraversa. Ed è dolce, da parte della platea, naufragare in questo mare, nel perpetuo movimento ondoso del racconto che, al pari di un’aragosta, abbandona il fardello del proprio esoscheletro, perché, sviluppandosi, ha bisogno di modificati contenuti. Persino la certezza cartesiana si scioglie come neve al sole, si sbriciola: il pensare non garantisce la propria realtà o quella circostante. Piuttosto, la riscrive continuamente, arrivando, addirittura, a riscrivere corpi ed identità. Lucia Lavia è la Pizia della parola, una sacerdotessa post-moderna della voce dell’Altro. Ascoltando i suoi policromatici esercizi di fonazione, si ha la netta impressione che sia la parola stessa a dirsi, a prendere coscienza di sé, a esprimere contenuti, magari, deliberatamente devianti rispetto a chi li pronuncia. Era dai tempi di Bene che non si aveva la possibilità di ascoltare una così piena volontà di procurarsi ferite metafisiche, ma anche terribilmente percepibili, attraverso i fonemi, trasformandoli in rasoiate capaci di far sanguinare l’aria che attraversano. La laringe grida il suo sforzo di partorire fonemi podalici, creature che già si ribellano al loro pronunciatore: pretendono, impongono un loro dominio, cercano il riscatto dalla cattività dell’essere detti, dell’avere un unico senso.

Come il rock-and roll robot della biomeccanica, brechtianamente, l’attrice si strania sula scena, si elettrizza come una rana galvanica, si snoda, portando sul territorio del corpo la sempiterna battaglia del dire e della pronunciabilità. Luigi Tabita indossa la sua figura gigantesca con dignitosa e pirandelliana umiltà sul palcoscenico, piegandola e arcuandola sotto il peso delle verità nascoste che, a poco a poco, gli si sommano, idealmente, sul dorso. Rappresenta, traslato nella nostra contemporaneità, il dopo del racconto omerico del Ciclope, lasciato solo nel buio della sua cecità, costretto ad intuire il mondo circostante tramite i suoni. La sua phonè, forte e calda, vive con efficacia tutta la terribile dialettica di intenzioni, delicate e fragili, che chiedono e cercano impossibili certezze e verità allo squillante ottone di una tromba, come in certi fraseggi indimenticabili di Chet Baker. Il regista, Carlo Sciaccaluga, confeziona una camera delle meraviglie in cui gli interpreti ci mostrano, con talento ed efficacia, quanto la verità sia instabile, e sempre interdipendente con il contesto e le dinamiche del racconto; quanto essa sia, in ultima analisi, una menzogna che non è stata ancora scoperta, l’ennesima maschera dell’Altro, dell’inconscio, che è sempre un passo più in là delle nostre interpretazioni.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*