Le parole di Saverio La Ruina hanno la facoltà di aggiungere qualcosa a quello che raccontano. Non hanno semplicemente un ruolo mercuriale, non sono stanchi messaggeri di ciò che deve essere detto; piuttosto, fanno esistere un po’ di più ciò che raccontano. Hanno, idealmente, in tasca la lezione di Lacan, e, prima ancora di significare qualcosa, significano per qualcuno, per l’attore stesso. L’interprete le mostra fra le mani, come se fossero lucciole, piccole cose gozzaniane che diventano un mondo in cui perdersi. La via del Popolo a Castrovillari, protagonista della narrazione, dimostra che, se Cristo si è fermato a Eboli, Omero ha proseguito il suo viaggio, facendo della vita di tutti i giorni una piccola, grande mitologia. Mentre l’orologio appeso si squaglia come quello di Dalì, rompendo la geometria regolare di un tempo cronologico – bandito, una volta per tutte, dal reame del racconto teatrale – vive un altro tempo. Questo è un tempo qualitativo, cairologico, fatto di sovraimpressioni, flashback, di ralenti o avanti veloce: una dimostrazione, teatralissima, della relatività del tempo stesso. La durata di un minuto dipende dal lato della via del Popolo su cui ci si trova, o degli anni in cui la si percorre.
La Ruina ti prende un singolo istante, più sottile di un granello di sabbia, e te lo fa vedere, anzi, meglio ancora: te lo fa sentire, come si può percepire da dentro una coscienza. Chi l’avrebbe mai detto che nella profonda provincia calabrese, nel sud dei santi di Bene, si potesse incontrare Bergson; e paste ripiene di panna, di crema, nuove madeleine proustiane, con le quali ci si può felicemente imbrattare il bavero dell’anima. Via del Popolo diventa non un luogo, ma il luogo della vita che, nel rammentare se stessa, non può che moltiplicarsi per ogni creatura, ogni fenomeno con cui viene a contatto. Ed è di una dolcezza struggente sentire questa voce farsi piccola, come se implicasse, appena dietro il suono di ogni fonema, il fiat voluntas tua mariano, rivolto al pubblico. Cammina, rispettosa e umile, tra le parole; come fosse tra i lumini di un cimitero, dove prende le mosse questa storia, che si fa beffe del tempo già nella scelta di principiare dalla fine. E’ una storia frattalica, che prende le provinciali più lunghe, perché così, durante il tragitto, ci si può godere il paesaggio. Si apre alle parentesi, che non sono più parentesi, ma parti irrinunciabili della storia. L’attore mostra alla platea il delicato bozzolo del suo racconto, e fila quella seta con una pazienza olimpica, con una calma zen. Da qualche parte, nella sua vocalità, c’è sempre un sorriso, pudico, appena accennato; uno di quei sorrisi tipici di un Sud che fa di un’attesa, di una pausa, di una scelta di parole, tutta una filosofia.
Appare, agli spettatori, un diamante purissimo, una luce esistenziale svelata , come il più prezioso dono. Qui si danza con levità fra le parole, ed esse acquistano la medesima leggerezza che può avere la luce. Questa alchimia, questa magia, questa capacità di esprimere, teurgicamente, tutta la grazia divina anche della creatura più piccola, che, nel dipinto, è poco più di un puntino – e immediatamente, senza filtri intellettuali – è un preziosissimo patrimonio della drammaturgia di La Ruina. Il padre che si perde rinnova la narrazione di Ulisse, e del figlio Telemaco, che cerca di seguire, di indovinare il bandolo del filo aggrovigliato paterno. E’ un’epica che sa delle cose di tutti i giorni, che profuma dei caffè nei bar di famiglia, che chiede alla Diva di cantare le cose come sono, non come dovrebbero essere. Si avverte quasi una nostalgia di quegli dei che intervenivano nelle vicende del mito, e qui , invece, se ne stanno in religioso silenzio, come la platea tutta. Si vede un taglio cinematografico nella capacità di panoramicare sulla via, di offrire un piano sequenza che costruisce una coreografia perfetta con i vari appuntamenti visivi presenti nella strada. L’elettricista con la faccia e gli occhi tristi di Cazale, che esercita la sua professione più con gesti magici, sciamanici, che applicando la scienza dell’elettrotecnica, e il macellaio che assomiglia all’altro figlio del Padrino, il riccioluto Caan, sono tra i personaggi di questa Baaria di Tornatore traslata in Calabria. Qui si elogia la lentezza, e lo si fa con arte e maestria; qui si elogia il tempo che matura piano, che proprio non ci sta a farsi schiaffeggiare dagli implacabili tic tac. D’altronde, come ricorda Schopenhauer, tutto ciò che è squisito matura lentamente. Ma La Ruina fa di meglio, travalicando, in un solo passo, il confine tra lento e veloce. Sembra regalare, con questo suo monologo, la versione in fieri, agìta, della frase che Svetonio attribuì ad Augusto: “Festina lente”, ovvero affrettati lentamente. E, su Via del Popolo, non si può fare che questo: affrettarsi lentamente, prima che l’ultimo buio scateni gli applausi.
Danilo Caravà
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