
Guardare e ascoltare un testo di Pirandello equivale a sentire il rumore che fa, cadendo, il cristallo dell’anima individuale. L’ultimo ridotto di resistenza umana, la propria identità, cade inesorabilmente sotto i colpi di un ragionamento che taglia la gola a tutto, in primis a se stesso. Il segreto è questo, ben espresso da questo spettacolo, la sconfitta dell’uomo cartesiano di fronte allo specchio di Wittegenstein, il proprio io servitore di troppi padroni. Il paradosso della propria identità è quello di moltiplicarsi nell’immagine dell’essere per gli altri, e nella più profonda immagine dell’essere per sé stessi. Il regista Loris gioca abilmente sulla scena di una contemporanea caverna di Platone, con le ombre vive, le maschere nude, fenomeni che cercano disperatamente la loro terza dimensione esistenziale, ma faticano a comprendere l’abisso della propria coscienza, proprio come una creatura bidimensionale a capire la dimensione della profondità. In scena alberi stilizzati ed essenzializzati nella forma futuristica di una serie di luci appese, concentrati nella loro forma astratta, come quelli di Mondrian, diventano un paesaggio metafisico, insieme agli oggetti ben sterilizzati cromaticamente nel bianco di Sironi. Ci si trova in una sorta di uno spazio mentale dove la popolazione interna, le sub-personalità di Assaggioli si giocano pugilisticamente l’effimera supremazia.
Il protagonista è reso efficacemente attraverso una simbologia immediata, fisica, che lo scrive come una firma sghemba, con un corpo storto, come un Riccardo terzo senza regno i cavalli, al massimo con il surrogato marinettiano di una carrozzella che contiene certi letti d’infanzia, come un dottore Stranamore che non ha bombe da lanciare se non quelle della sua parola. I pensieri sono la malattia della mente e il personaggio li spegne, ritorna nell’illusoria incoscienza. Incarna una sorta di marionetta con i fili ingarbiati, che si muove goffamente, ma ha la terribile coscienza d’essere marionetta, o pupo, se la vogliamo scrivere alla Pirandello. E’ ossessionato dal guardare e dall’essere guardato, dall’essere catturato in un’immagine equivoca e comunque già appartenente al passato. L’essere presenti a se stessi, sostanzialmente, diventa una rincorsa impossibile di una verità che è essa stessa una maschera. Eraclito nel drammaturgo siciliano vince ai punti su Parmenide, tutto scorre inesorabilmente, presenza umana compresa. I nomi sono la burocrazia della socialità in triplice copia, sono maschere bianche poggiate su altre maschere. E proprio di quei nomi il protagonista si vuole ostinatamente spogliare, cercando una sorta di francescanesimo psicologico, una spoliazione della mente discriminante, una teologia negativa. L’attore Gaetano Callegaro è in una sorta di stato di grazia interpretativo, e decisamente va, con la sua interpretazione, dove non si tocca, ed è dolce, e insieme amaro, naufragare in questo mare. La sua ferita metafisica, l’impossibilità di trovarsi autentico, diventa dolore fonetico, piega e scolpisce, come una scultura, il suo corpo. Cerca pervicacemente il fanciullo pascoliano, il suo socratico so di non sapere, anzi la dimensione precedente. in cui questa affermazione perde ogni senso. Sente letteralmente franargli il terreno dell’identità sotto i piedi, e fa percepire allo spettatore l’orrore di quel baratro che si è aperto nel pavimento della sua esistenza.
Stella Piccioni è un personaggio che trova efficacemente in sé il suo autore. Abile maschera al servizio del testo scenico, moglie, amica, o su una bicicletta in bilico tra il beckettiano ed il marinettiano, è perfettamente inserita nel gioco serio del teatro pirandelliano. Come le donne di Truffaut misura il mondo scenico con l’implacabile metronomo dei suoi tacchi. Riesce, insieme ad altri interpreti ad esplorare quella zoomata in avanti che rende il comico pirandelliano, da vicino, un dramma in cui la risata si spegne in bocca. Mario Sala è l’incarnazione stessa del titolo dell’opera, è letteralmente uno nessuno e centomila, ora specchio, ora io deviante, ora clown tragico in grado di gettare i rottami del vivere civile contro il muro dell’indifferenza. Fa schioccare la lingua nella forma della sua erre blesa, e sferza la platea con una recitazione partecipata e sanguigna. Loris, il regista, muove efficacemente le pedine sceniche, gioca seriamente, al pari del bambino nietzschiano, e prende ogni frammento di personalità del protagonista, in modo che possa riflettere esattamente la luce del testo originale. Svela il punto di vista e di svista del personaggio, la sua visione di sghembo, la sua anormalità che deve essere bonificata, normalizzata in una struttura sanitaria.
Un altro suicidato della società di artaudiana memoria paga il prezzo del suo smacherarsi e smascherare, e ottiene come ricompensa una carrozzina beckettiana, ma a questo giro Hamm rimane senza Home. Eppure dopo il frenetico muoversi del mondo agitato, di questi esseri formicheschi che portano diligentemente al formicaio il proprio carico di maschere, l’apparizione di questo essere, di questo motore primo fermo, come quello aristotelico, ha qualcosa di catartico. Sbucciando la mente grossolana, con Peer Gynt sbuccia la sua cipolla, questo Vitangelo Moscarda, con i pensieri ronzanti del tafano socratico, rimane con un vuoto pieno, un’intuizione indicibile, per sempre nascosta in questo volontario milite ignoto.
Danilo Caravà
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