Recensione: “Stabat pater”

stabat pater
Foto Fabrizio Re Garbagnati

In principio era il corpo, un vangelo riscritto nella carne, in una figura che decisamente si ribella al piano cartesiano. Costruisce una geometria non euclidea, un essere che sta dall’altra parte del’arco costituzionale rispetto all’uomo vitruviano. E’ un uovo cosmico che si schiude, è una nascita tutta particolare di una creatura dolcissima che si scrolla di dosso l’Űbermensch di Nietzsche con colpi decisi, elettrici, con linee curve che sfidano qualsiasi stabilità strutturale. Ecco un essere completamente, senza equivoci o sconti, “dionisiaco”. Ha una febbre inestinguibile, rappresenta la terra umana terremotata, cortocircuitata da qualche misteriosa forza metafisica. I suoi suoni preverbali sembrano la scrittura di una musica contemporanea, atonale, dodecafonica, il suo muoversi è la coreografa di una particolarissima Sagra della Primavera.

Non è semplicemente un figlio disabile, ma l’espressione delle emozioni in purezza, lo sguardo dell’utopico fanciullino pascoliano, la poesia rimasta nella penna di Blake al’interno della raccolta Songs of Innocence. Potrebbe essere un Astianatte sopravissuto ala terribile caduta dalle mura di Troia, e a curarlo c’è un Ettore del 21° secolo, che si toglie l’elmo, ossia la sua maschera sociale, per parlare al pubblico della fatica sisifesca e insieme eroica. E’ fatale che appaiano dei momenti in cui il suo rapporto fisico con il figlio si fa scultura vivente, e traguarda in una Pietà michelangiolesca che illumina il tappeto, un trampolino elastico, una simbolica membrana osmotica, una caverna delle ombre su cui proiettare l’anima più nascosta dei due personaggi. Si confrontano e, a volte, si scontrano due linguaggi: uno verbale, l’altro nel quale è il corpo stesso a farsi pittografia, ideogramma; una scrittura faticosa, dolorosa, che cambia continuamente sul foglio invisibile della scena. Si racconta la quotidianità, che può farsi, con la stessa velocità di un rapido respiro, commedia e poi tragedia. Sul violoncello del corpo vengono suonati idealmente struggenti passaggi della Passione secondo Matteo di Bach. Il Getsemani rivive in una camera da letto, e, nell’incontro del corpo del padre con quello del figlio, non si distingue dove finisca la carne di un Cristo e dove inizi quella dell’altro. Può capitare che una pioggia di caramelle Rossana diventi qualcosa di liberatorio di catartico. E, se tarda a venire il dio dalla macchina per sciogliere i nodi delle umane vicende, ce lo si può reinventare.

La machina del deus diventa un tappeto elastico su cui il figlio può esprimere una gioia primordiale, irraggiungibile, perché non macchiata nemmeno dalla presenza di un io. Sembra il Geoffrey Rush di Shine, questo essere speciale nel saltare. Il salto diventa il più immediato simbolo esistenziale di un figlio che ha questo modo a scatti, a salti di esprimersi, di essere, di disegnarsi dal mondo. Il momento più intimo con lui, il padre lo raggiunge proprio quando decide di varcare idealmente le colonne d’Ercole, di abbandonare la trappola del linguaggio, che mangia i suoi stessi figli fonetici al pari di Crono. La risata diventa il punto zero della comunicazione, l’orizzonte degli eventi linguistici: un ponte o, meglio ancora, un abbraccio in grado di unire in un unico cuore due esseri umani.

E’ felicemente antidarwinista questo spettacolo, ci insegna la danza poetica e tragica di un diversamente abile, nella cui esistenza è scritta tutta la tragediografia di Eschilo, di Sofocle, di Euripide, tutti i pugni che Prometeo non ha ancora levato verso il cielo. Cristico è il suo stesso esserci, e se c’è un dio sul palcoscenico, un dio che si fa agnello sacrificale, un Abele che sorride teneramente al coltello di Caino, un Isacco che guarda con occhi puri l’arma di Abramo, quello sta proprio lì. Porta il peso di un tappeto elastico sulle spalle, come un Atlante porta su di sé il peso del mondo. E’ tutto così naturale, così vero,così sincero, come un pane rustico spezzato e condiviso su un desco di legno grezzo. Gioele Cosentino, danzatore della compagnia Sanpapié, si immerge nel figlio disabile fino al tallone e oltre. Diventa un figlio non minore,ma maggiore, del dio della biomeccanica. Ha la grazia splendidamente innaturale di Nijinsky, è una marionetta disarticolata, in cui gli arti sono ribelli coscienze dotate di una propria autonomia, è un ballerino che suda sofferta teologia da ogni poro della pelle, è una carne attraversata da un devastante vento metafisico. Manuel Ferreira non è un padre: è il padre, si fa archetipo calato nella quotidianità, vero quanto il giorno che ci aspetta al risveglio. E, quando ride o si commuove, mostra lo sbocciare spontaneo di fiori preziosi sul prato della sua anima. I suoi fonemi hanno il sapore della salsedine, e del vento sferzante del Nord, e la sua laringe non abbandona un suono, senza prima averlo abbracciato. Il regista Claudio Orlandini è un cardiologo del testo scenico, in grado non solo di mostrare alla platea il cuore di questo legame, ma di permettere ad ogni spettatore di percepire le contrazioni di questo muscolo cardiaco.

Danilo Caravà

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