Recensione: “Resurrexit Cassandra”

resurrexit cassandra
Foto Marco Ghidelli

Siamo troppo in ritardo per gli dei e troppo in anticipo per comprendere l’Essere, ci ricorda Heidegger, ma sicuramente siamo nel tempo giusto per ascoltare la dura profezia di questa nuova Cassandra teatrale. Ed eccola arrivare in scena, la profetessa che osò negarsi ad un dio, vestita di nero per dimostrarci che il lutto non si addice soltanto ad Elettra. Immobile, come il primo motore aristotelico, mentre una voce maschile si consuma nelle casse, lascia alla platea un desiderio sempre maggiore che la nuova profezia inizi. Ma è la sua parola la prima a nascere, e che parola, viene da una cassa armonica che ha un legno d’anima, mentre le laringi sono corde sfregate dall’archetto di fonemi, che cadono con la fatalità e il tonfo di massi sulla platea.

La tragedia è tutta in una scenografia di carne, in una Salomè teucra che ha lutti più infiniti da raccontare di quelli che il Pelide Achille addusse agli Achei. Si spoglia, strato dopo strato, svelandoci la buccia cromatica sempre diversa di una verità, ora nera, ora rossa, ora blu, ora verde, ora bianca. E infatti scalda la temperatura emotiva della platea fino al calor bianco, seduce e condanna, ride e maledice, urla e ha nella gola tutto il coro delle troiane euripidee. Rinasce per darci la sua profezia più infausta, quella di una terra che ha già da tempo perduto il suo Astianatte, di una madre Ecuba, e insieme Gea, che piange per la ferita delle sue foreste lacerate, per la plastica e i rifiuti che le intossicano la vita. Canta questa Cassandra, canta i lisergici Strawberry Fields, o Here Comes the Sun, e lo fa come una Lotte Lenya, come una Dietrich, una femme fatale abile nell’usare quel recitativo, quella terra di nessuno, feconda come non mai, tra la prosa e il canto. Il suo sprechgesang vorrebbe mostrarci la strada per il prossimo brechtiano whiskey bar, visto che la terra sta morendo. Diventa la nostra coscienza, il precipitato di un’etica della natura che è rimasta nascosta per troppo tempo sotto il tappeto del progresso. Rappresenta un ritratto di Dorian Gray che prende meravigliosamente nei propri fonemi tutte le rughe dei nostri peccati. E stavolta non è stata lei a chiedere la testa del Battista, ma gliela porta l’umanità intera su un piatto.

C’è un’orchestra intera che si agita nella gola di questa Cassandra, rapsodie boeme, che si devono inventare un proprio vento fonetico, perché qualcosa continui a soffiare. Ha come primi interlocutori dei serpenti sacri, statuari, una violenza crudele, ma congelata, un monito perfetto, in cui far raggrumare le parole. Non c’è una parola che non abbia l’urgenza e la necessità di dirsi, di manifestarsi dalla bocca di Cassandra, non c’è verbo che non porti con sé, come un uncino, un brandello della carne spirituale, emotiva della protagonista. Sonia Bergamasco si spacca l’anima, e la spacca alla platea con colpi di scure vocale precisi e fatali, mentre scorrono dietro di lei le immagini del suo doppio intento a maneggiare un’ascia, e verrebbe voglia di dirle, parafrasando il titolo di una famosa canzone dei Pink Floyd, Careful With That Axe, Cassandra. Modula come esperta amatrice la catarsi aristotelica, riuscendo, come nella musica wagneriana, a spostare sempre un po’ più in là il vertice della tensione. Le sue parole sanno della verità di un letto sfatto di due amanti, sono screziate da sentori di tannini maschili che rendono un vino forte e corposo il suo dire. Ha tutta una libreria nel ventre che sfoglia attraverso la sua gola, e, per ogni colore di vestito, ha un tono diverso della voce da offrire alla platea. Rimane con maestria in funambolico equilibrio tra Dioniso e Apollo, tra i lucidi paradossi di Diderot e le febbri estatiche dell’immedesimazione. La Bergamasco fa un filo così tagliente alle sue battute, che i suoi soffiati riescono a far uscire il sangue all’aria che fendono. È la tragedia stessa concentrata in unico corpo, così potente da far tappare le orecchie agli dei per la vergogna del loro colpevole silenzio, e far spalancare quelle degli spettatori. Il regista Jan Fabre costruisce una partitura essenziale, una danza rarefatta, che ha il sapore dei mandorli in fiore del teatro orientale, e la irriverente seduttività del cabaret berlinese. Crea un centro di gravità, una forza irresistibile gravitazionale nella stessa presenza scenica dell’attrice, e le inventa un abito a strati, metafora potente quanto la cipolla del Peer Gynt.

L’autore del testo, Ruggero Cappuccio, ha il merito di trovare parole potenti, in grado di schiaffeggiare i luoghi comuni e la drammaturgia un tot al chilo. In un’ora di monologo fa idealmente vivere a Euripide le 101 giornate sadiane e sadiche di Sodoma. Trova il modo di fare con le parole quello che Bacon sapeva fare con la pittura, trovare l’anima scomoda delle immagini. Ha l’urlo di Munch pronto ad esplodere appena dopo l’ultima sillaba, ma anche la fascinazione senza fiato di una prosa lirica, che trova il coraggio, come un’ardita cattedrale, con le campate, con i suoi archi, di sfidare i limiti strutturali di una vertiginosa verticalità, per puntare dritto fino al cielo. Piovono parole in platea che hanno l’ipoteca dell’universale, di un monito per un mondo che rischia la distruzione. E l’attrice si merita tutta la pioggia di applausi scroscianti dopo l’ultimo buio.

Danilo Caravà

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