Recensione: “Nella solitudine dei campi di cotone”

campi di cotone
FOTO Francesca Marta

“Nella solitudine dei campi di cotone”, la pièce più nota dell’autore francese Bernard Marie Koltès, è in scena al Teatro Out Off con la regia di Roberto Trifirò, che porta nuovamente sul palco un autore contemporaneo e, in questo caso, l’incontro/scontro tra due solitudini a cui prestano corpo e parola Stefano Cordella e Michele Di Giacomo.

Due uomini si incontrano nella notte, in un luogo indefinito. Un dealer, un cliente e qualcosa da offrire, da vendere o acquistare. Non sappiamo bene quale sia l’oggetto del contendere, la ragione dello scontro e del commerciare. Protagonisti di un “mercato da non rivelare”, portatori di desideri e passioni che, nel gioco indistinto tra rivelazione e occultamento, muovono i personaggi in modo ambiguo, sensuale, violento e a tratti misantropico.

Il testo di Koltès è macchinoso, intrigante e si immerge lentamente in un’ancestrale solitudine, che nasce insieme all’uomo e gli aderisce fedelmente fino all’ultimo. E’ questo che viene fuori, potentemente, dal testo dell’autore francese: la solitudine innata è il nostro partner più fedele.
Alda Merini, a proposito, poetava: ”S’anche io ti lascerò per breve tempo, solitudine mia, se mi trascina l’amore, tornerò, stanne pur certa; i sentimenti cedono, tu resti”. Essa è, insieme al timore dell’altro, costitutiva di ogni relazione umana. Non possiamo prescindere dalla paura e nell’amare è audace il passo che la supera, coraggioso il desiderio che la combatte.

 

campi di cotone
FOTO Francesca Marta

In questo caso ci troviamo di fronte a due personaggi profondamente intimoriti l’uno dall’altro. Il dealer cela la paura vestendola di impulso e ambiguità, il cliente la utilizza come giustificazione e freno al proprio desiderio. Il primo seduce e il secondo sfugge, ma le parti possono invertirsi e a quel punto diviene impossibile riconoscerli e definirli. Ciò probabilmente intende fare Koltès, confonderci interiormente e porci, consapevolmente, delle domande che, per loro natura, non prevedono alcuna possibile risposta. E questo aspetto è visibile chiaramente attraverso la performance dei due attori, che riescono nell’intento comunicativo a livello verbale senza, purtroppo, colpirci empaticamente. Risulta alquanto complesso gestire la portata sintattico-lessicale dell’opera di Koltès, così come l’onnipresente ambiguità e quello dei due attori è un lavoro reso maggiormente faticoso dalla mancanza di un’impronta registica decisa che sappia sostenere la pièce. Non è possibile scorgere chiaramente uno sguardo demiurgico che ci accompagni nella visione né una voce artistica che ci guidi nella comprensione. Si lascia allo spettatore una libertà eccessiva che finisce per paralizzarlo, non avendo un punto di vista forte al quale aderire o contrapporsi.

Fiocchi di cotone sostenuti da fili metallici e un tubo esagonale sospeso insieme ad una serie di luci al neon che si accendono solamente sul finale, come a sancire la fine di una contrattazione o la resa ad un desiderio. Un fondale illuminato da diversi colori in successione e due entrate/uscite visibili sul palco. Una scenografia che semplicemente si accosta al confronto tra i personaggi ma non li sostiene, esiste silenziosamente ma non interagisce.
Ciò provoca una sensazione che serpeggia durante tutto lo spettacolo e rimane nella mente dello spettatore: l’incontro/scontro dei due sconosciuti viene ben raccontato e recitato, ma non vive sul palco; tutto rimane pressochè statico fino al finale che, forse tardamente, ci scuote e ci lascia in un’oscurità colma di interrogativi, che tali rimangono anche all’illuminarsi della sala.

Giuseppe Pipino

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