Recensione: “Museo Pasolini”

museo pasolini
©Musacchio, Ianniello, Pasqualini

Benvenuti al “Museo Pasolini”, esposizione sulla vita del Poeta o, più prosasticamente, lo spettacolo firmato da Ascanio Celestini, andato in scena presso il Teatro Carcano di Milano dal 2 al 6 febbraio 2022.

La guida-testimone che accompagna gli spettatori-visitatori, partecipi e attenti, è appunto Ascanio Celestini: custode appassionato e preparatissimo, ossessionato dalla “cronologia”, racconta la vita del Poeta – e la storia dell’intera nazione – attraverso i fatti che hanno caratterizzato gli anni che vanno dalla nascita (Bologna, 1922 – anno zero dell’Era Fascista) alla morte (Roma, 1975 – «anno LIII dell’Era Fascista» dice Celestini). L’attore, autore e regista dello spettacolo spiega che “per farlo mi faccio aiutare da cinque pezzi immateriali del nostro Museo”.

Un museo sui generis, certo ben diverso dal Louvre o dall’Hermitage dove i turisti fanno la coda davanti a dipinti e statue famosi. In questo Museo la sala-scena appare scarna, sono presenti una porta che non si aprirà mai (limite invalicabile, confine tra ciò che si sa e ciò che “so ma non ho le prove”), due lampade di gusto retrò che pendono dall’alto, una sedia, alcuni faretti a terra… eppure, si tratta di un “vuoto” “pieno”: anche questo museo presenta infatti pezzi notevoli, reperti “immateriali”, “inconsumabili”, proprio come la poesia del Poeta (Pasolini viene definito semplicemente “Poeta” per l’intero spettacolo) e sono infatti le parole a rievocare le opere necessarie per “ricordare” la vita, ottemperando alle funzioni cui un museo dovrebbe ambire: ricerca, acquisizione, conservazione, comunicazione, esposizione (fonte: l’International Council of Museums).

Ecco dunque i cinque reperti immateriali e inconsumabili: il primo è la poesia che Pasolini scrisse a sette anni, nel 1929, usando le parole “rosignolo” e “verzura”; il secondo è dedicato al cimitero di Casarsa dove è stato sepolto accanto alla madre e al fratello; il terzo è una pagina sull’invasione sovietica in Ungheria (l’innocenza del comunismo italiano piegata, stirata, messa nel cassetto); il quarto è sulla strage di piazza Fontana; infine, quinto ed ultimo, il suo corpo ucciso e martoriato.

E sviscerando la vita del poeta, si finisce per raccontare la storia di un paese. Come dice Vincenzo Cerami: “Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini dalla prima poesia fino al film Salò, l’ultimo suo lavoro, avremo il ritratto della storia italiana dalla fine del fascismo fino alla metà degli anni Settanta.”

Con l’efficace e suggestivo accompagnamento musicale della fisarmonica (musiche di Gianluca Casadei) Celestini ci coinvolge in un’affabulazione serrata, dai ritmi vorticosi, come in un caleidoscopio presenta un’immagine dietro l’altra mescolando cronaca dramma ironia, verità che emergono quasi inattese dal buio dell’oblio (luci a cura di Filip Marocchi), un susseguirsi di storie così diverse e allo stesso tempo così intimamente legate tra di loro: il racconto del padre Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria; il fratello Giovanni, partigiano, trucidato da altri partigiani, “quelli con il fazzoletto rosso”; l’amore per la lingua friulana, per la pittura, per Pascoli, per gli Ultimi. Tra continue digressioni, dialetto, vino e poveracci, si palesa il mondo delle borgate e delle baracche di Roma: la gente del circo, i due Sandroni, don Roberto Sandrelli, i ragazzini della scuola… non sono descrizioni di Pasolini, ma Celestini li immagina con lo stile e l’umanità del Poeta (come se fossero amici dopo aver condiviso un giro sull’autobus di linea) e anche noi ci immergiamo, divertiti e commossi, in quel mondo apparentemente sporco ma puro. E ancora: il forse tentato omicidio di Mussolini e il riuscito assassinio di Anteo Zamboni; i giochi a tre carte con le Sette sorelle e gli Arabi per il Petrolio; i colpi di stato sventati (e sfruttati) e le telefonate notturne; la politica della tensione; l’Era Fascista; il rifiuto del partito comunista, che allontana questo “figlio” Poeta così strano, profondamente onesto e troppo coerente agli ideali (ovviamente per poi riabbracciarlo come un eroe dopo la sua morte).

Ma si racconta anche la storia “scandalosa” del Poeta, le odiose strategie di Palazzo, il delitto di Pelosi: un omicidio commesso non da un individuo ma da un’epoca intera.

Assassinio che si consuma oltre la brutale materialità dell’esecuzione, già di per sé cruenta ed efferata: il commento del poliziotto che, stupito dalla normalità della biancheria rinvenuta sul cadavere, afferma «uno come lui me lo immaginavo con le mutandine di seta», non è che la condanna, infamante e volgare, per infangare la persona, la memoria, la poesia “immateriale”. Giudizio diffuso e condiviso attraverso le pagine dei giornali, riducendo un evento di livello molto più alto, con implicazioni di natura politica culturale sociale, a un fatto di misera cronaca, quasi una pruderie…

E proprio a proposito della memoria del Poeta (ricordiamo che stiamo visitando il Museo a lui dedicato), ora che festeggiamo il centenario della sua nascita e lo celebriamo, dobbiamo scontrarci con il paradosso che in realtà molto spesso se ne parla senza aver studiato le sue opere e lo si cita a sproposito, strumentalizzando le sue parole senza coglierne l’essenza e rendendogli un pessimo servigio: triste destino…

Celestini sostiene che «Pasolini spesso viene citato da persone che non lo conoscono, trattato come un cantante pop, da liquidare con due canzoni e via. Quanti davvero hanno visto “Edipo Re”, “Orgia”, “Porcile”, “Pilade”, “La trilogia della vita”, o letto “Petrolio”? Se non si sa che cosa ha scritto è normale farsi un’idea sbagliata, e la strategia fascista su Pasolini funzionerà ancor meglio, di lui si ricorderà solo l’omosessualità, i ragazzetti e la pornografia. Una gigantesca fake news».

È quindi necessario, se vogliamo “ricordare” Pasolini, approfondire lo studio delle sue opere. Anche su questo fronte, Celestini non viene meno al suo compito: non è infatti nuovo all’esplorazione di Pasolini, vedasi i suoi spettacoli “Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini” che rimandava all’immaginario pasoliniano, e “Radio Clandestina” che finiva proprio con la voce registrata di Pasolini. Dunque è ancor più interessante l’operazione compiuta in questo spettacolo, che va oltre l’omaggio e la “memoria”. Celestini ha infatti un’idea precisa di ciò che per lui è la memoria: “La memoria è in movimento perenne, in continua trasformazione e quindi, più che a un oggetto che chiamo memoria, a me piace pensare a un’attività e a un processo che chiamo ricordare”. E continua: “La questione fondamentale è nel bisogno che oggi abbiamo di ricordare, il bisogno e l’interesse che alcuni hanno di “non” ricordare…di quello che c’è dentro o, forse, guida di quello che non c’è, perché rimosso o perché qualcuno non vuole resti se non come intenzione. (…) È un museo dove può finire una poesia perduta, più che una conservata, dove resta l’anima delle cose che sono state, non già gli oggetti ma le occasioni in cui c’è stata vita”. Questo Museo è pieno di tutto ciò che si vorrebbe fosse rimosso: riprendendo una delle immagini topiche dello spettacolo, il segno vuoto lasciato da un quadro tolto da una parete è un significante vuoto che si presta alla manipolazione ma è anche lo spazio del possibile e dell’immaginazione.

Per dare vita a questi pezzi immateriali e rendere possibile ciò che appare “vuoto”, dobbiamo forse quindi, come società, sostituire alla Colpa dell’assassinio – condivisa da tutti, dall’Italia, dal Novecento – la Responsabilità: prenderci cura delle persone, del nostro Paese, della nostra Storia.

In questo sta anche la missione del teatro di Celestini: “Pasolini si interessava agli esclusi e metteva la sua penna e la sua arte al servizio del tentativo di metterli al centro della vita sociale e politica. E questo per me deve fare anche il teatro: riportare il “noi” al centro della scena, al posto dell’“io” (…) non racconta fatti privati e “borghesi” ma fatti essenziali per la vita di una comunità: l’arte deve interessarsi alla collettività, il teatro deve restare un “presidio di civiltà”: un luogo in cui le persone preferiscono ancora la relazione diretta con la cultura, nonostante tutto”.

Un atto poetico, un atto politico.

Ci congediamo con alcuni versi del Poeta Pier Paolo Pasolini, da “Poesia in forma di rosa”:

“Io sono una forza del passato,

solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l’Appia come un cane senza padrone

o guardo le mattine, i crepuscoli

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo

come i primi atti del dopostoria

Marzorati

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