
Il regista Arturo Cirillo conclude la trilogia sulla drammaturgia americana (iniziata con Zoo di vetro di Williams e Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee) con Lunga giornata verso la notte del premio Pulitzer O’Neill, prodotto da Tieffe Teatro Milano. The Long Day’s Journey into Night (titolo originale), scritta tra il 1939 e il 1941, era ancora inedita alla morte nel 1953 di O’Neill, il quale lasciò disposizione di non renderla pubblica per altri venticinque anni. L’autore era, forse, consapevole di aver frugato in ferite ancora aperte nella propria esistenza e nella propria famiglia, che Cirillo e gli altri attori ci espongono ancora grondanti di dolore e nostalgia. La sua terza moglie Carlotta Monterey ne autorizzò invece la messinscena nel 1956, che si impose sin dal suo debutto come una delle più grandi pièces americane del secolo.
Quattro esistenze claudicanti avanzano e indietreggiano sulla scena, nell’arco di una giornata sempre più buia e nebbiosa, a tratteggiare il ritratto anamorfico di una tipica famiglia americana: James, ex-attore e padre avaro, Mary, drogata e madre apprensiva, il figlio maggiore James, alcolista disadattato e puttaniere, il figlio minore Edmund, appena tornato a casa gravemente malato.
Una coreografia fantasmatica disegna i percorsi dei personaggi, tenuti in piedi solo da un ultimo afflato di rabbia e ipocrisia. Poche azioni che descrivono i rapporti frantumati di una famiglia forse mai esistita, tra le mura indefinite di una casa mai stata tale. Il rispetto di Cirillo nella resa di ogni personaggio ci restituisce un dolore viscerale e una fragilità esistenziale vissuti sul palco ed urlati in faccia al pubblico. Non c’è quarta parete che tenga di fronte alla disperata follia di Mary, interpretata con toccante delicatezza da Milvia Marigliano, che diviene fulcro dell’intera opera e oggetto di ogni discussione. Presenza inquieta e prigioniera di una casa che ha sempre odiato, di una solitudine a cui aderisce completamente ma da cui, al contempo, rifugge, attraverso un viaggio allucinato alla ricerca di sé stessa, dei suoi sogni. Ricerca che ha il suo apice nel monologo chiave dello spettacolo. La nebbia artificiale invade la scena e le parole di Mary perdono sempre più senso, il suo corpo e la voce di donna adulta sbiadiscono, lasciando gradualmente spazio ad una regressione infantile inevitabile e, al contempo, desiderata. Mentre Mary si disancora dalla realtà, gli uomini della sua vita diventano sempre più evanescenti, incapaci di stare insieme sulla scena senza ferirsi ed attaccarsi in qualche modo. La bottiglia di whisky si svuota seguendo il ritmo dei respiri esausti dei personaggi e della giornata che, lentamente, li abbandona. E quando la notte sarà trascorsa ed il giorno dovrà rinnovarsi, Mary avrà trovato pace o vagherà ancora per le stanze della sua anima? E James continuerà a risparmiare anche sull’amore che dovrebbe dare senza esitazione? James jr. finirà di nascondersi dietro una bottiglia di whisky o tra le gambe di una prostituta? Edmund, invece, potrà finalmente lasciare l’esistenza che, imperterrita, lo annichilisce?
I quattro personaggi sono, prima di tutto attori, che mettono in scena l’ultima replica della loro vita. Quattro camerini, macchina del fumo, fondale trasparente all’occasione: il copione di menzogne si scontra con una straripante esigenza di verità, i personaggi entrano ed escono dalla scena in base al ritmo scandito dalle loro solitudini che si fanno suono, sirene improvvise. Le luci variano assieme agli umori e diventano simboli potenti, come tutto ciò che vediamo sul palco, sul quale ogni elemento ha ragione d’essere. E questo è dovuto all’efficace sinergia tra i vari reparti, dalla regia all’illuminotecnica, dai costumi ai suoni e così via.
Una pièce che ci espone amaramente a temi e situazioni che riguardano tutti e che, puntualmente, riteniamo profondamente distanti da noi. I personaggi diventano allegorie evanescenti delle nostre paure e degli svariati e disperati modi in cui tentiamo di soffocarle. La citazione frequente di Shakespeare ci riporta, forse, ad una visione dell’esistenza che accomuna il bardo e gli attori/personaggi di O’Neill: “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa niente” [Macbeth: atto V, scena V]
Giuseppe Pipino
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