Recensione: “Le nostre anime di notte”

Basta immaginare che le dostoevskijane notti bianche coinvolgano non più due giovani, ma una coppia matura, per trovare il meraviglioso cristallo purissimo, simile a quello di un fiocco di neve, che anima questo testo di Kent Haruf. L’adattamento drammaturgico di Aldrovandi è una sorta di atanor, di fornello alchemico, in grado di trovare la pietra filosofale della poesia. E di poesia, qui, ce n’è tanta, all’interno di una stanza, nell’ultimo ridotto esistenziale delle umane coscienze; di notte, perché, bene ce l’ha insegnato Fitzgerald, tenera è la notte. Un uomo e una donna, diversamente giovani, hanno, nei loro fonemi, l’odore di lacrime di vita, ma sono gocce dolci, sono il lievito di questa storia. E’ una strana coppia che proprio non ci sta a rifugiarsi nel teatro dell’assurdo, che non vuole e non può gettare, in faccia alla platea, schiaffi di vita tra un bicchiere di whisky e l’altro. Sceglie decisamente di raccontare la propria voglia di leggerezza, che, semmai, imparenta i due personaggi a quegli amanti di Chagall, che hanno il cielo come domicilio provvisorio, poi chissà. Se, poi, ci si mette di mezzo la luce lunare che filtra da una finestra, mentre Debussy dà indicazioni sul tocco con cui porgere le battute, il gioco è fatto. D’altra parte, lo diceva anche Ungaretti: “il vero amore è come una finestra illuminata in una notte buia, il vero amore è una quiete accesa”. Qui la vita vive, con buona pace adorniana, ma lo fa con un suono attutito, come quella paglia sotto gli zoccoli dei cavalli, che doveva impedire, a quel suono, di offendere gli ultimi giorni di vita del maestro Verdi.

“Quiete accesa” è proprio il cuore, l’imperativo categorico che ha guidato Serena Sinigaglia in questa particolarissima regia, fatta di una seta sottile e delicata, di fruscii, di mezzi toni, di soffiati, di parole che si aprono con la naturalità con cui si potrebbe spezzare del pane. E’ come se, all’improvviso, i personaggi di un quadro di Hopper fossero, per una sorta di magia narrativa, sfuggiti alla loro devastante solitudine, al loro silenzio raccontato, sommessamente, agli oggetti che li circondano, e avessero deciso di eludere quella prigionia, quella cattività babilonese dell’anima, fatta di alienazione, di confino nel recinto invalicabile del proprio io.

La migliore cartina di tornasole della riuscita di questa operazione, consiste nel leggero coro a bocca chiusa fatto di sospiri, di “tirate su col naso”, di manifesta commozione da parte della platea. Sì, perché i due personaggi parlano e raccontano la vita, ma non esclusivamente la propria: quella di chiunque, in cui tragedia e commedia si rincorrono, affannandosi a essere prime almeno per un momento. Sono due angeli che, più che di morire, hanno una paura, che muove al pianto, nei confronti della solitudine: temono che nessuno più possa accorgersi del frenetico sbatter d’ali di quella poesia naturale, che è la propria esistenza. Sono due innamorati sulla panchina di Peynet, per cui l’attesa è stata davvero lunga, il tempo si è sciolto come gli orologi di Dalì, ma la straziante, umanissima voglia di tenerezza è rimasta intatta. Dopo tutto, sotto un taglio geometrico di luce, la vita non è semplice vita: è un’opera d’arte che, se guardi bene, vive e respira.

C’è, a disposizione, un poeta, per descrivere tutto il meraviglioso mondo interiore, di intenzioni, di anima di questi due personaggi, che cerca di farsi gesto e parola; “l’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano”. E questo fanno in scena, con una dolcezza quasi ultraterrena, Lella Costa ed Elia Schilton. Trovano la migliore, la più efficace chiave di lettura dei loro personaggi , raccontando il desiderio invincibile di mostrare tutta la loro fragilità, nonché, senza maschere e sordine, i loro sentimenti immediati; e lo fanno con l’estrema naturalezza con cui lo potrebbe fare un bambino.

Tornano a quel gioco, serio, convinto, a quella voglia non repressa di condividere, di stare insieme. Scoprono i sorrisi più delicati e teneri, quelli che si possono rivelare al buio, senza bisogno di doversi guardare allo specchio. Funziona bene l’intuizione registica di dismettere pian piano questa stanza, perché la scena naturale diventi la stessa presenza dei due personaggi, che compiono, insieme, un percorso per arrivare all’essenza delle cose. Dioniso benedica Brecht, che, anche qui, permette di superare il teatro aristotelico, e di riportare la narrazione, senza veti o tabù di sorta, sul palcoscenico; benedica quella terza persona, quel narratore che ha mani scrupolose, adatte a maneggiare il delicatissimo baco da seta spirituale dell’uomo e della donna. Ha ragione il buon psicologo della Gestalt, Fritz Perls: “ogni volta che accade qualcosa di reale, ciò mi commuove profondamente”. Ne è riprova questo riuscitissimo spettacolo, che merita tutto il generoso capitale di applausi tributato dalla platea.

Danilo Caravà

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