Recensione: “L’è el dì di mort, alegher”

alegher

C’è un aspetto, nel fare teatro, che costituisce da secoli, financo dai tempi delle rappresentazioni antiche nel teatro di Dioniso, una croce e delizia per ogni interprete: la quarta parete. Invisibile quanto un concetto della metafisica, ma vera, tremendamente elastica e resistente agli urti come la gomma più tenace, è oggetto dei continui tentativi di bucarla da parte del palcoscenico, perché tutto arrivi a quella platea oscura, forse, a volte un po’ sonnecchiante, anonima, bisognosa di forti stimolanti somatici. Ecco, allora, la geniale intuizione di questo spettacolo: prima, dalla platea, si segue, in versione aggiornata, l’appello di una presenza a teatro che diventi condivisione con gli interpreti, una mensa collettiva che abbia ancora l’odore di certi minestroni che ti entrano su nel naso, promessa di una carezza gastronomica che ti scalderà, insieme, lo stomaco e il cuore. Poi tutti in trincea sul palco, dunque, per lo spettacolo di questi uomini contro, che raccontano la guerra dal basso, dal fango , i pidocchi, e la morte che non fai tempo a piangere, che già dovresti versare nuove lacrime per il prossimo soldato caduto.

Il fil rouge dello spettacolo è la lunga poesia del Tessa su Caporetto vissuta a Milano, in un taglio già cinematografico, con un montaggio di strofe frenetico, alternato, fatto di  piani sequenza, ritratti di gruppo e individuali. E il milanese riesce ad essere un risuonatore ventrale emotivo, lo strumento giusto per raccontare questa musica esistenziale. Marco Balbi travalica abbondantemente la definizione del fine dicitore: diventa un ottone, emotivamente sincero, una tromba che ti prende l’anima e te la scuote ben bene  come certe lenzuola prima di essere ripiegate. Paolo Bessegato è l’altro attaccante di questo spettacolo: con la vibrante etica del fraseggiare dettoriano, lancia suggestioni che colpiscono al cuore ogni Ramòn seduto attorno a questo tavolone quadrato. E poi, non può mancare la fisarmonica di Riccardo Dell’Orfano, ideale per vivere tutta la contraddizione degli stati emotivi che vanno dalle lacrime al riso, nel giro di poche bevute (di fonemi) degli attori; un vino robusto, tannico, che lascia a lungo l’eco della sua memoria nelle orecchie degli spettatori.

Le musiche e i testi di Emilio Lussu, Carlo Salsa, Enzo Jannacci, Boris Vian e Corrado Alvaro rendono unica questa esperienza, questa comunione laica: un’ultima cena nella vulgata di un’osteria prima dell’ultimo assalto, dove magari sarà distribuita una razione di grappa per farsi coraggio, e per dimenticarsi che ogni passo, fuori dalla trincea, potrebbe essere l’ultimo. Si racconta il bartlebyano avrei preferenza di no di esseri umani che non capiscono la crudeltà di uccidere, legalmente e forzatamente, dei propri simili, solo perché portano un’altra divisa. Gli animi si scaldano, bicchiere dopo bicchiere, e si scioglie la lingua in un canto in cui il pubblico è invitato a partecipare. Perché il canto è così: quando non ci arriva o si ferma la parola, comincia il miracolo del cantare, trovando un modo immediato, partecipativo, per raccontare qualcosa che il nudo verbo non riesce a dirsi, inseguendo il suo significato, come il gatto insegue il  suo ninnolo. Allora, la melodia si fa vivace e  partecipata; si diventa un coro tragico in cui la poesia è una vampa accesa nelle parole, che si scrollano di dosso la loro formalistica burocraticità.

Per raccontare, per dire no alla guerra, l’unico modo possibile veramente efficace è questo, e lo sa bene  la regista, Caterina Spadaro. La mano degli interpreti batte sul tavolo ritmicamente, invitando il pubblico a fare altrettanto:  perché i tamburi di guerra diventino tamburi di pace, perché vinca il ritmo cardiaco originario, quello che il feto ascolta e assorbe nel ventre della madre. La vera irrazionalità non è quella distruttiva, caotica, oscena, obbrobriosa del sentimento bellico della mortido, ma è quella sana, di una ventralità illuminata dal cielo delle stelle fisse del cuore. Da un Dioniso che, col suo teatro, salva l’Arianna – platea dalla tristezza del teatro formale e paludato, accompagnandola nel suo corteo sul palcoscenico. Viva Bacco, evoè, viva il teatro!

Danilo Caravà

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