Recensione: “La purezza e il compromesso”

la purezza e il compromesso
Foto Elisa Nocentini

C’è un angelo anche per Milano, ed è seduto su un’altalena, nell’incipit dello spettacolo, un essere vestito di nebbia e fatica che condensa la storia di Visconti e Testori così, in un’immagine perfetta, in un falso movimento, nella carne appena un po’ staccata dalla terra, la quale pensa al cielo, è dà voce all’ineffabile mistero che la abita, attraverso un linguaggio la cui grammatica è fatta di rabbia e lacrime.

Rocco e i suoi fratelli sono una tragedia, anzi la tragedia per eccellenza che cala su Milano in sostituzione del dio euripideo, per farne sentire insieme l’assenza e la struggente nostalgia. Bastano due fratelli, Rocco e Simone, ed una donna fra loro, per far detonare la vicenda, Nadia, una Antigone che a questo giro non ha un fratello nel giusto da seppellire entro le mura di questa Tebe lombarda, e sbatte con violenza le sue ali, ma il fango che hanno raccolto le zavorrano, e non le permettono di volare più in alto di quel quinto piano da cui ha cercato di sfuggire. La boxe, che dovrebbe rappresentare il riscatto sociale, è in realtà l’eterno terreno di confronto dei due personaggi, diventa l’espressione di una dialettica ossificata, smunta e maledettamente affamata di verità, trasuda Dioniso dai guantoni, e tira dei tremendi uno due alla vita vigliacca, ruffiana, bugiarda, che proprio non ne vuole sapere di andare al tappeto. L’intuizione felice del regista Paolo Trotti è quella di tenere i suoi interpreti sempre sul ring del palcoscenico, di far si che si scavino da dentro una libbra di carne, il più possibile vicino al cuore, da offrire alla platea, concedendo giusto il tempo di un break dato dalle mani che battono sui piatti di una batteria, che diventano tremendi schiaffi all’esistenza.

Hanno personali piccoli fari a disposizione i personaggi, lampade di Diogene in cerca di umanità, raggi di luce per sezionare la carne, e scoprirne lampi metafisici, come in un quadro caravaggesco. Hanno l’anima tumefatta dai colpi, e restano ancora in piedi fino all’ultima ripresa, vengono da molto più lontano rispetto a quella Eboli in cui si è fermato Cristo, da chissà quale Paese che brucia di fame e di guerra. Trovano che l’inferno di Milano brucia tremendamente sulla pelle, in forma di un manager che puzza di zolfo e perdizione, che seppellisce senza neanche il conforto di un amen, la loro purezza, e gradino dopo gradino, li porta laddove l’ade ha consumato tutti sentimenti, e lascia che il ghiaccio fassbinderiano dell’impossibile amore diventi più freddo nella morte. L’abbraccio dei due fratelli verso il finale è l’intenzione deviante, tutto ciò che l’ha preceduto, gli sputi, i pugni, le parole gettate con forza come sassate, sembrano essere state la lunga premessa, il calvario di un sentimento contrario da espiare, il grido di aiuto che fatalmente è così, sospeso tra la preghiera e la bestemmia, il cuore di tenebra e di luce della scrittura testoriana.

Non ci sono né vinti, né vincitori, ma soltanto un paesaggio pittorico di carne che si raggruma in una luce fioca, la morte non muore, ma trasuda un ineffabile Altro, mentre Nadia è un agnello che non ha più bianco per raccontare il sangue del suo sacrificio. Tutte le voci degli interpreti hanno un buon sinistro, uno di quelli che, se ben piazzati, possono atterrare alla prima ripresa, fanno fare la guerra alle loro parole, le portano in trincea insieme a loro, e con loro ne portano le ferite. Sudano anima dai pori, un’anima che ha un odore acre, che porta il peccato originale della carne che abita. Eccolo qui il segreto di questo spettacolo, corpi in guerra, che hanno tutto lo spazio della scena per fare a botte con la vita, mentre un fondale fatto di sacchi sporchi, sfatti, diventa la metafora del coro muto di un’umanità troppo umana, che oppone il suo assordante silenzio alla battaglia condotta da Ettore ed Achille, lontano dalle porte scee, sul testoriano ponte della Ghisolfa.

L’attrice Margherita Varricchio, nell’interpretare Nadia, cava fuori dal suo diaframma disperati fonemi di perdizione, accende la luce rossa come la Roxanne dei Police, e trasforma il suo corpo in un ulteriore linguaggio, stavolta fatto di carne, che grida il suo mancato riscatto. Stefano Annoni è un Rocco in grado di far sentire il sangue nella saliva della sua vocalità, soffre e s’offre alla platea con la rabbia di chi prova ad abbracciare il fratello fino a fargli male, a fargli comprendere quanto è tossica la mela addentata nel giardino del bene e del male. Michele Costabile indossa benissimo il vestito di carne del personaggio di Simone, piega la sua schiena a quel peso esistenziale, a quella domanda d’amore che si sporca di rabbia ad ogni passo. Riesce, con la sua interpretazione, a far passare oltre la quarta parete, tutto il dolore che può provare l’anima. Diego Paul Gualtieri ha successo nel calarsi nel ruolo della madre, tira fuori dal ventre una Ecuba da far tremare il cielo, ed insieme interpreta il ruolo di un laido manager, di un intrallazzatore che mastica l’anima dei due fratelli, e la sputa con naturalità attraverso fonemi taglienti e martellanti, che sembrano fatti apposta per piegare il ferro della loro resistenza.

Il vincolo di sangue fraterno e quello per Nadia si uniscono nel per sempre di un istante, un intero istante che ha il sapore agrodolce dell’impossibile felicità e della posata ossidata, che deposita in platea il suo sapore vero, metallico, in grado di rendere la carne ancora più carne, la vita ancora più vita.

Danilo Caravà

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