Recensione: “La gioia”

Foto Luca Del Pia

“Questo spettacolo rinasce dalla morte di Bobò”. Così Pippo Delbono dà avvio a La gioia, in scena al Piccolo teatro Strelher dal 4 al 9 giugno, e celebra un’assenza di fondamentale presenza nell’opera: nel febbraio 2019 è venuto, infatti, a mancare uno dei grandi compagni di teatro (e di vita, come se fosse necessario specificarlo) del regista, Vincenzo Cannavacciuolo.

Più di un ventennio univa la collaborazione tra i due, a partire dallo spettacolo Barboni (1997), che sancì l’entrata di Bobò a teatro e, al contempo, il suo primo ingresso nella vita. Egli infatti, sordomuto, era stato ricoverato dalla nascita nel manicomio di Aversa, finché Delbono lo prese con sé a formare questa grande compagnia di ‘colori’ umani, anzi fiori, che gira da anni tutti i teatri del mondo. Ed è forse questo che conferisce al Teatro del regista un’aura potentissima: la capacità, ed il coraggio, di coltivare un terreno teatrale che abbia come protagoniste le più diverse e sfaccettate tipologie di fiori; uomini e donne che nelle loro peculiarità, così come nelle loro assonanze, esaltano la varietà, neutralizzando ogni concetto presupposto, forzato, fuori luogo di ‘normalità’.

A partire dalla scenografia, che gioca sul completamento del senso al limite tra il visibile e l’immaginabile, creando panorami esposti al naufragio di corpi, di fiori (composizioni artistiche a cura di Thierry Boutemy), fino alle storie, quella del ricco signore triste, del clown Gianluca, dell’anima di Bobò, di dolori che precedono le gioie, a loro volta seguite da altri dolori e altre felicità e tristezze e timori; il percorso della vita qui assume le forme embrionali di ogni sentimento concepibile nell’arco di un’esistenza, trasmettendo la “possibilità (inesauribile) della gioia”.

E ancora le musiche di Pippo Delbono, Antoine Bataille, Nicola Toscano, assieme ai costumi di Elena Giampaoli, concorrono ad instaurare una relazione profondissima con lo spettatore, che è la cifra dello spettacolo.
Varie modalità teatrali e di racconto si intrecciano, dal mimo alla pantomima, dall’Enrico IV di Pirandello ai personaggi-ombre di Kantor, a costruire in una maniera tortuosa com’è la vita una strada di contatto con il pubblico e di rottura e di sollecitazione, che giunge a commuoverlo e a ‘risvegliarlo’.

“Dov’è questa gioia? Dov’è?” chiede Delbono agli spettatori. Come per porre un problema, come per proporci una soluzione semplice ai ‘perchè’ complicati e ai ‘come’ complessi, alle preoccupazioni che troppe volte ci paiono insuperabili e che, puntualmente, superiamo.
“La gioia è l’Aprile degli occhi” dice il regista; la gioia è l’aprire degli occhi, si potrebbe pensare alla fine di questo spettacolo. Tutto ciò che attraversa il palco e lo vivifica in modo sempre nuovo e mai banale (che accade quando a teatro si torna ad immaginare), concorre a questo: la gioia siamo noi, noi siamo l’amore e “l’amore è carne”, per dirla ancora con le parole di Delbono. L’amore è carne ed è apertura a tutte le anime possibili con cui entriamo in contatto. Non è possibile sentirsi soli e completi; la gioia sta nel due e nelle infinite, potenziali mani che afferriamo lungo tutta una vita.

Giuseppe Pipino

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