Si entra a spettacolo iniziato nella sala della Triennale Teatro dell’Arte, su una musica che di sottofondo non è, ma la fa da padrona preannunciando fin da subito la sua presenza costante e ad alto volume per le due ore che seguiranno. Mentre gli spettatori raggiungono il loro posto, i quindici attori-allievi de La Manufacture, Haute école des arts de la scène, sono in penombra dietro il velo trasparente che divide il palcoscenico in due parti longitudinali. Nella metà sul fondo, le loro sagome danzanti, in quella prospiciente la sala, una consolle da dj e lo spazio dedicato allo “spettacolo-concerto-karaoke-manifesto” messo in scena dai Motus.
Stando all’equazione che trova nella sintesi un concetto chiaro e nelle definizioni prolisse l’enigma di un pensiero contorto, si potrebbe concordare che quattro termini per lo spettacolo di fine corso di una classe di attori suonano eccessivi. L’intento rimane senza dubbio esemplare: mettere a confronto due generazioni di giovani che in tempi diversi si sono trovate di fronte all’apparente insormontabilità di monoliti capitalisti ed egemoniche correnti di pensiero della generazione appena precedente. Agli allievi classe ’90 de La Manufacture è stato chiesto di mettersi di fronte alle biografie e alla musica degli artisti del fenomeno post punk dei primi anni ’80, Siouxsie, Joy Division, Talking Heads, Gang of Four, etc. Dai testi delle canzoni agli aneddoti delle loro vite, ricavarne delle corrispondenze con il loro vissuto che potessero dare forma alla drammaturgia di questa performance. Così si avvicendano i 15 giovani attori al microfono, ci mettono la faccia e la voce per far risuonare tutta l’irruenza di una gara all’ultimo karaoke che mette in palio il premio più ambito: l’affermazione di sé, la lotta per l’esistenza e la trasgressiva resistenza. Il dubbio sorge però che anche i più pudichi conformisti in sala possano sentirsi minacciati quando una delle attrici scende in platea chiedendo se ci sia qualcuno disposto a lasciarle lo stampo del rossetto sulle natiche, e infatti l’ha vinta al primo tentativo, o quando un istante dopo sbandiera sulla sua testa il tampax appena estratto. Se questo spettacolo fosse stato un pasoliniano scavo nei tabù sessuali del popolo italiano, avremmo ancora molto da parlare e da scandalizzare. Ma si tratta in questo caso della generazione cresciuta a suon di nuovo millennio e vecchie promesse mai mantenute, del tutto già fatto e già detto in maniera così sublime da non poter nemmeno sognare di competere. Sublime è invece il momento in cui la statica divisione del palcoscenico e la rotazione delle esibizioni musicali e performative si annullano al calar dei fari, e la luce piena cede il passo a minuscole lucciole schierate in fila. Anche la musica si abbassa e lascia che le voci a cappella degli attori intonino “In a manner of speaking” dei Tuxedomoon. In quel canto sottovoce di un paio di minuti è forse racchiuso il grido delle due ore di questo spettacolo: Give me the words, that tell me nothing, vorrei trovare il modo per dire tutto senza dire niente. Vorrebbe questa generazione, certo che vorrebbe parlare, ma forse troppo paziente aspetta ancora che i rumori intorno si plachino, che qualcuno si accorga e ceda loro il passo. Ma intorno solo orecchie stanche assuefatte ai rumori non sentono che questa generazione sta già parlando, sottovoce.
Alessandra Pace
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