Se si dovessero tradurre in partitura musicale i contenuti e lo stile di una drammaturgia come quella di L5- S1, sicuramente si potrebbe parlare di un Allegretto. Per la precisione quello scelto da Michela Tilli e Alessia Vicardi è contenuto nel terzo tempo della sonata K 397 di Mozart. Ma L5-S1 è, prima di tutto, una storia naturale. E la protagonista, che infatti è una musicista e musicologa, affronta una degenerazione fisica, dovuta ad una malformazione genetica, nell’unica modalità con cui chi è vittima di una beffa (proprio) della natura può usare per non farsi inghiottire dalla disperazione. Con un meraviglioso viaggio ironico. Una fantasia, appunto. Un po’ come quella del compositore austriaco. Una fantasia in Re minore, che nel suo terzo movimento, si manifesta nell’allegretto su citato e che tutta la corte viennese si aspettava di ritrovare in un personaggio ritenuto eccentrico come il suo. Pur quando quest’ultimo, come racconta la stessa protagonista, non era in vena di improvvisare allegri.
È nell’esecuzione di quell’allegretto, durante una conferenza, che qualcosa in lei si inceppa, non scorre più come dovrebbe. Il suo carattere si presenta subito come vitale, pieno di una luce positiva e con grandi capacità intrattenitive. É una donna stabile, forte, convinta. Che si deve però arrendere alla inesorabilità di un dolore fisico che degenererà, probabilmente fino ad invalidarla. E durante i venti minuti di una risonanza magnetica, quei venti minuti in cui la voce del tecnico di laboratorio le chiede gentilmente di stare più ferma possibile, la sua mente vola per esorcizzare la paura, nel tentativo di dare quantomeno uno scopo a quel dolore. Per superare ed affrontare la necessità delle relazioni con l’esterno, anche quelle che richiedono un semplice “grazie dottore”. “Perché il dolore a cosa serve?”, si chiede. A niente. Forse è solo una questione di sfiga. È la natura. È come quando un terremoto spazza via tutto quello che si ha. Con chi ce la si può prendere? Con nessuno, certo. Eppure alla fine ce la si prende con tutti. A partire dal luminare dalla profumata parcella che, come racconta il testo, ci illumina sulla salute usando il tatto di un attore comico, per arrivare a Dio, che si creda o mano nella sua esistenza: “dimmi un po’ cosa è peggio per te. Che il tuo nome sia infangato o di non essere proprio considerato?”
Se si può in qualche modo intendere la complessità della struttura drammaturgica, in qualche modo si può anche immaginare quanto ricche e varie siano state sia le scelte registiche di Chiara Petruzzelli (sempre in collaborazione con Alessia Vicardi), tanto le energie spese nell’interpretazione. Un monologo di 70 minuti con il metronomo, è il caso di dire, ad altissima velocità, sempre. Pure quando si regala al pubblico un momento di pausa, di respiro, durante la pausa dell’esame in corso (“facciamo cinque minuti di pausa. Si metta comoda”. È una parola.).
Un racconto che si articola in una pluralità di sequenze, ognuna con una sua precisa immagine e un suo codice stilistico. Un immaginario ricchissimo, che permette di ridere a malincuore e rendere accessibile una situazione che se venisse raccontata sul pianerottolo di casa non si potrebbe sentire tanto vicina a sé. Per citarne alcune: il medico burlone di cui sopra raccontato come uno stand-up comedian dalla battuta sempre pronta ma dall’effetto logorante. La perdita di controlla del proprio corpo causata dall’errore genetico trasposta nei leggendari bugs di programmazione della prima versione del videogioco Tomb Raider.
L’ansia di comprendere una materia complessa come la genetica, per dare una tangibilità maggiore a quanto sta accadendo, diventa un disastroso esame universitario.
Tutto rende il dramma vicino a chi ascolta e osserva. L’ironia, la preghiera, la musica e la letteratura. Ma anche un po’ di sana cultura nerd. Tutto meravigliosamente sostenuto da una performance stellare di Alessia Vicardi. A farle compagnia in scena solo un pianoforte e un bravo musicista (Flavio Aster Bissolati) bravissimo a raccontare con il suono e l’elettronica le alterazioni distorte causate da quegli stessi errori.
E quell’allegretto, che si ripropone come coda dello spartito della K397, è destinato a ritornare anche verso il finire del racconto, quando in quella conferenza iniziale affollata di colti intellettuali della musica, la nostra donna ripensa a come avrebbe voluto concluderla senza il filtro del doversi contenere. Una coda che ritorna per farci capire, forse, che è stupido mettersi in gabbia da soli. Ma questo lo si capisce solo quando ci sono forze esterne a chiuderci in gabbie ancora più grandi e solide. Come quei venti minuti di risonanza magnetica. Come la paura di scoprirne l’esito.
Un bellissimo lavoro, da applausi molto lunghi. Che bello, sarebbe, se potesse vederlo anche Mozart.
Dario Del Vecchio
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