Recensione: “Jackie”

jackie

Una serie di pupazzi sulla scena è lì a dimostrare che la classe kantoriana è morta, e stavolta per davvero. L’unica a non essere morta, è la classe di questa impeccabile first lady. Sono presenze vagamente inquietanti, che odorano di metafisica, quanto di lievito un pane appena sfornato. Sciolti dall’equivoco della coscienza e di credersi qualcosa  per se stessi, sono lì per il pubblico e per Jackie, agnelli sacrificali, bianche verginità, suturate punto per punto. Bambole per una Nora smaliziata, una Jackie che gioca alla vita con la grazia e la leggerezza di una mannequin dagli abiti in seta. Sfiora, letteralmente, il pavimento questo personaggio; rivaleggia in levità col fumo costante delle sue sigarette, che sembrano, almeno per un po’, la percezione visiva degli istanti, la radiografia di un’anima che appare, incerta, vagula e blandula come quella evocata da Marc’Aurelio.

E’ un corpo nuovo il suo, pare che abbia realizzato l’utopia artaudiana del corpo senza organi, perfetto, destinato a durare attraverso i secoli: icona, simbolo, totem di una bellezza che si specchia dal mare proiettato sul fondo, ricordo atavico della nascita di Venere. E poi c’è quella voce, che suona con estrema delicatezza sulla laringe, come la mano di Chopin sulla tastiera. La si può girare e rigirare fra le mani, al pari di un cubo di Rubik, senza scioglierne l’enigma. Poi, finalmente, ecco l’intuizione improvvisa, il satori, l’antica rottura del secchio, la luce che illumina la soluzione: questa è molto più di una voce, è un distillato, di un corpo e di tutta l’esistenza che l’ha abitato, goccia a goccia, fonema dopo fonema. Con l’asciuttezza e l’essenzialità di una poesia giapponese, un haiku, i fonemi sono rifiniti come i rami di un bonsai. Si vede quella pianta fonetica in tutta la sua bellezza incantatrice, ma anche il lavoro di rifinitura, di torsione, di  controllo, di sfrondatura che sta dietro questa meravigliosa costruzione verbale, complessa come un capolavoro del barocco.

il testo del premio Nobel Elfriede Jelinek non solo si presta a questa scelta, ma la asseconda, la richiama, è un canto in prosa che non potrebbe essere fermato o inascoltato, nemmeno coi tappi di cera dell’equipaggio di Ulisse. Qui si fa una rivoluzione copernicana dell’assunto sartriano l’inferno sono gli altri. “Per catturare gli altri bisogna essere prigionieri di se stessi”, ci racconta questa Jackie, e questa frase vale più di mille lavori dell’attrice su se stessa, nel nome di Stanislavskij. Il matrimonio, la fiera delle vanità del potere, la drammatica morte del marito, raccontata peraltro nello stile della tragedia antica, perché la hybris kennedyana doveva fatalmente arrivare alla dike: un messaggero in forma femminile, idealmente con un vestito che non sfiori il punto vita, ci racconta i terribili fatti accaduti nella casa degli Atridi americani. Romina Mondello, la protagonista, è guidata da una stella polare costante e luminosa, quella del lasciarsi essere, del camminare, con la grazia e l’abilità di un funambolo, tra ragione e sentimento, tra Diderot e Strasberg. Permette alla sua phonè di divorare tranci di vita e di emozione, ma sempre con un controllo impeccabile, come se, dalla parte del pubblico, arrivasse l’eco di un’esistenza piena di irriducibili contraddizioni.

A dimostrarlo, i numerosi gesti psicologici, freudiani, e quella esplosione di irrazionalità che la trasforma, per qualche istante, in una creatura biomeccanica, in un essere galvanico, il cui movimento è frutto di una cortocircuitazione elettrica. E’ bravo, il regista Emilio Russo, nel confezionare uno spettacolo frutto  di un lavoro di alta sartoria. Le cuciture ci sono, ma invisibili, e l’impressione è quella di assistere a un flusso di coscienza. Costruisce una mulleriana machine, non però di Hamlet, bensì di Ofelia, che ha parecchio da dire sul suo Amleto. In certi momenti, in certe pause, in certi fiati in prestito, che hanno appena il tempo di essere percepiti dalla platea, si nasconde il discorso definitivo di questa Jackie, che deve chiudere lei la vicenda, perché qui non arriverà alcun Fortebraccio. Stretta nelle spalle, la schiena al pubblico: ecco il segreto ultimo di un’esistenza che parla, direttamente con la voce dell’anima, alla platea.

Danilo Caravà

Be the first to comment

Leave a Reply

Your email address will not be published.


*