
Immaginate di avere la lampada di Diogene così vicina al vostro viso da poterne sentire il calore, è questa l’esatta sensazione lasciata da questo spettacolo, che chiama a raccolta gli spettatori sul palco per un esperimento sociale, unico nel suo genere, quello di trovare la dimensione di un umanesimo in grado di abbracciarti forte, con braccia fatte da parole. Lorenzo Loris, il regista dello spettacolo, ha avuto il merito di spezzare il pane narrativo, eucaristico, dostoevskijano, e di farne sentire l’odore, la fragranza allo spettatore, e tutti i fonemi, nessuno escluso, sono insieme il vento fermo e mobile del corpo, un precipitato d’anima, consustanziali con le braci che fanno scintillare lo sguardo dell’attore. Si vede in ogni gesto, in ogni postura, come attraverso il guscio di un uovo di serpente, il raffinato lavoro di cesello, un’opera di alta oreficeria alla Benvenuto Cellini.
L’intero monologo porta in ogni istante l’ipoteca della necessarietà, ed il tempo della piece è dato da quel metronomo, quello strumento unico ed umanissimo, di carne, costituito dall’uomo ridicolo. La sua apparizione è quella di un clown in grado di tirare fuori una vocina stranita, una di quelle che testimonia il talento teatrale di riuscire ad invecchiare senza diventare adulti, ed ha già le idee chiare, ovvero indicare una stella speciale su cui appendere la sua lacrima di Pierrot. Il suo essere ridicolo è un sorriso che si guarda allo specchio, è quel senso di struggente di malinconia di ogni clownerie, e più la gente ride, più all’artista viene voglia di piangere. Ma il protagonista dopo aver idealmente girato sul lungo il perimetro della scena con la stessa levità del sognatore durante le notti bianche, riesce a cavar fuori dal suo sottosuolo psichico il suo ringhio doloroso, che si impasta con l’uggiolio straziante della sua sofferenza.
Basta davvero il suo racconto onirico per fare di un palcoscenico un regno, per visitare un mondo utopico, per contaminare con la propria imperfezione il bon savage rousseauiano, per ritrovare il proprio mondo in un mondo ideale, per avere la forza di amarlo di più ora che si appanna, si sfigura, si torce nella smorfia del male di un quadro di Bacon. Per fare tutto questo non gli basta altro che superare la quarta parete, fragile e delicata quanto una tenda fatta di strisce che graffiano il viso ed insieme l’anima, e di mettersi al di là del bene e del male, oltre il settore del torto di brechtiana memoria, nella platea vuota, per vedere e raccontare pasolinianamente la terra vista dalla luna, per restituire, alla categoria dello spettatore, un moto, l’interruzione di un inerte otium, di una passività visiva ed acustica, la quale, attraverso la pietra filosofale dell’attore, diventa l’oro del monologo. L’attore è un aedo contemporaneo che racconta le storie a poco più di un fiato dai suoi ascoltatori, e se non c’è un fuoco a scaldare, ci penserà il crepitare fonetico delle sue parole a donare calore. In una prospettiva meteatrale il regista propone il primo atto d’amore dell’interprete nei confronti del pubblico, la causa prima aristotelica, messa a fondamento della macchina teatrale, il suo sedersi accanto allo spettatore, e permettere, in quella vicinanza, che sia percepibile l’odore dei suoi pensieri, e quello ancora più sottile dei sottotesti, delle intenzioni devianti.
Perché leggere Dostoevskij attraverso uno spettacolo equivale proprio a questo, a sfogliare un manuale di anatomia spirituale, ad accorgersi che, oltre ad essere semplicemente, si può rammentarsi di essere umani, di essere sogni talmente ostinati da chiamarsi reali. La sua penna e le sue parole hanno la forza di penetrazione dei raggi ics, e sono in grado di restituire la radiografia interiore, insieme alle rotture, alle macchie scure dell’umanità. Il testo scenico ha la forza di una morality play medievale, di una rappresentazione che riesce a trovare la luce del sacro nel più profondo fango del profano, un quinto vangelo apocrifo umano, che nietzschianamente non teme di essere persino troppo umano per poter amare ancora più selvaggiamente questo imperfetto, dolorante, bipede implume. L’attore Mario Sala compie il miracolo di cedere al personaggio tutta la sua persona, e si dona con stupefacente prodigalità, entra in punta di piedi fonetici, e riesce a batterli, a farli danzare a tutti i ritmi presenti nella piece. La sua vocalità riesce come un Giano Bifronte, ora a mostrare la dolcezza di Gelsomina, ora la ruvida umanità di Zampanò.
A tratti sembra che rimanga affascinato da quella stella che evoca, da quel cielo kantiano, etico, così come lo sa raccontare con il cuore sulle dita lo scrittore russo, lasciando lo spettatore nel dubbio se lo sia il personaggio, oppure l’attore, forse entrambi. Non può lasciare indifferenti questo uomo ridicolo che si prende ancora il lusso di sognare la realtà e di restituirla allo spettatore nella forma di un diamante purissimo. E’ più che mai vicino all’anima dello spettatore questo personaggio, che sembra essere una sorta di compendio, summa dei personaggi di Dostoevskij, e piace proprio dal momento che sbaglia, ma proprio perché lo fa, lo ammette, dichiara, al pari di Sant’Agostino, con questo, il proprio vivere, e potrà tentare e fallire, ma beckettianamente fallire meglio, potrà essere un povero cristo, proprio per questo a meno di un passo da quello evangelico.
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