Recensione: “Il fu Mattia Pascal”

Il fu mattia pascal

Eccolo lì, l’inconoscibile noumeno, la piccola cosa gozzaniana, o meglio l’uomo in sé, che può fare esperienza della sua essenza solo attraverso il fenomeno di kantiana memoria, il suo essere altro anche per lui stesso, vertiginoso, spiraliforme, serissimo gioco pirandelliano sull’identità, quando si proietta l’ombra della sua ricerca dell’io, sul telo bianco del suo sentimento del mondo. E’ geniale l’intuizione del regista Oliva di portare, come esperto speleologo, fin da subito, lo spettatore nell’umida caverna platonica, per far toccare con mano, o meglio con l’occhio, l’ombra gnoseologica della verità, che prende la forma di figurine magrittiane e golcondiane, di surreali travet che cercano soltanto di stracciare il cielo di cartapesta, perché sono stufi di essere sospesi tra l’essere e non essere.

Ombre cinesi, lanterne magiche che hanno la fascinazione del teatrino di maroniette bergmaniane, ma hanno il doppio fondo, il retrogusto amaro di una sofisticata menzogna esistenziale, di un vivere che cerca disperatamente di sollevarsi da sé come farebbe una figura cosciente su un foglio di carta, in cerca del senso di un’irrealizzabile, per essa, terza dimensione. Ci prova Mattia, con la feroce e struggente volontà shopenhaueriana, a trovare la forza per squarciare, o almeno aprire, il velo di Maya, posto, in forma di trasparente bianco tessuto sul palcoscenico, ma, non a caso, questa scenografia descrive un cerchio, l’antico tondo di Dioniso, l’eterno ritorno di un ombra dietro ad un’altra ombra, di una verità in forma di una menzogna che non è stata ancora scoperta. E’ dichiarato morto questo Pascal, che, al pari del suo illustre omonimo, ha nel cuore ragioni che la ragione non conosce, e cerca di costruirsi meticolosamente, hitchcockianamente, una seconda vita, una seconda opportunità, tuttavia l’ego burocratico, l’io sociale, lo insegue e lo perseguita, è un ombra che si comporta diametralmente all’opposto rispetto a quella di Peter Pan, malgrado lui cerchi di evitarla, puntualmente questa lo raggiunge.

Il protagonista si trova dunque a tornare nella caverna, nella vita precedente, non più ombra, ma ingombrante presenza fisica costretta a relazionarsi con ombre. Rispetto al personaggio di Platone, non ha una lieta novella da portare, e, per quanto si sia fatto operare l’occhio storto, deviante, brillante espediente narrativo per indicare l’empasse epistemologica di Mattia, che sa socraticamente di non vedere perfettamente l’ineffabile realtà delle cose, scorge ancora solo l’ombra della luce, promessa di conoscenza e liberazione, che batte insistentemente sulle retine degli spettatori, nei momenti di disvelamento. Mino Manni, nel ruolo del protagonista, è in un particolare stato di grazia con il suo personaggio, si fa pervadere dai suoi vapori, la sua laringe è una wunderkammer, una tastiera suonata con agilità su tutte le ottave, ne è fersenianamente posseduto, sembra quasi di vedere il daimon socratico che lo pungola e lo stimola nella ricerca, ossessiva, quanto disperata e commuovente, di ciò che rende l’io “io”. I suoi fiati sono lì, posti in verticale, tutti in fila come i mattoncini di un domino, pronti a cadere, uno dopo l’altro, perfettamente, per costruire un ritmo incessante, teso quanto il filo della spada di Damocle, che non si arrende, attraverso lo strumento del climax, nemmeno nei momenti di tacet dello spartito scenico.

Marco Balbi, nel doppio ruolo di presentatore circense della vicenda e del proprietario della pensione, dove Pascal cercare di far approdare la sua seconda esistenza, dimostra di aver guadagnato sul campo lo scettro di vieux roi del teatro, con un viso incorniciato dalla barba, la sua immagine si può agevolmente apparentare con l’iconografia di Socrate, in particolar modo con quella dell’attore Jean Sylvere, che lo incarnò per Rossellini. I suoi fonemi sono sfaccettature adamantine che brillano con perfezione geometrica sotto le luci di scena. Margherita Lisciandrano, nei panni della figlia del proprietario, impetala la sua vocalità nella forma di una rosa che il protagonista non po’ definitivamente cogliere, mancando di una burocratica identità. I suoi fonemi hanno un passo gentile ed aggraziato, e cercano di dare requie all’angoscia pascaliana. Alessandro Castellucci, che incarna sia il cognato della ragazza, che l’uomo a cui Mattia cerca di rubare l’identità, ovvero Adriano Meis, ineffabile coincidenza, sincronicismo narrativo coll’eteronimo pessoiano Ricardo Reis, sembra diventare, nell’indovinata lettura registica, un doppelganger, un Hide stevensoniano, un’immagine speculare, espressione dell’ombra inconscia del protagonista. Con la coramella della ragione, fa il filo alla lama delle sue battute, che distillano tutto il gioco paradossale della smania di avere, inamidata nell’abito della buona borghesia.

Completa il riuscito cast Gianna Coletti, la donna che vive nella pensione, la pianista privata del piano, la quale non può far altro che sostituirlo con vibrati fonemi, abbracci vocali che cercano di stringere il protagonista, è la vita questo personaggio, nascosta , relegata in una stanza, cerca di farsi sentire, batte i piedi con le parole, piange con l’ossimoro dei suoi sorrisi, è un esempio di quel sentimento del contrario che anima l’umorismo descritto da Pirandello, un personaggio farsesco, il quale, visto da vicino, con gli occhiali correttivi della ragione, spezza la risata in un sentimento di vicinanza e compassione. Tutti gli interpreti diventano poi le voci delle figurine del teatro d’ombra, di quella “lanterninosofia” pirandelliana che si invera e si fa, contemporaneamente, cosa salda ed eterea in questa riuscita messa in scena, in grado di fare incetta di meritatissimi applausi.

Danilo Caravà

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