C’è tutta un’orchestra di voci, nell’anima di questa interprete. Si conosce, e conosciamo il personaggio, attraverso questa musica polifonica di esseri, come gli eteronimi di Pessoa servivano a dar spazio a quello che non ci stava in una sola soggettività. Il tableau vivant iniziale della modella in posa si ribella a se stesso, l’acqua del fiume di Eraclito tracima, e, ogni volta, lo spettatore ha la sensazione di bagnarsi in stati d’animo diversi. La Fornarina, la modella del pittore, scende dal piedistallo del per-sempre dell’immagine pittorica, e ritorna di carne: ritorna a raccontare dal suo punto di vista, che tanto sarebbe piaciuta a Brecht, l’umanità di Raffaello, il pittore che la ritrasse.
Si rende giustizia a un personaggio che ha l’urgenza di narrare la sua storia; e la storia di un essere umano ha sempre una particolare fascinazione, è un’opera d’arte, a volte mancata, ma non per questo meno trascinante. L’attrice ti porta con sé, con certi sorrisi e certi sguardi che sembrano fatti apposta per farti capitolare. E viene la voglia di bagnarsi idealmente con lei nell’acqua, ancora fredda, del Tevere di maggio, in un giorno del nostro Rinascimento. Passa con levità, con la grazia di una giovane coreuta, da un personaggio all’altro, ma sempre andando ben oltre la mimesi vocale, e regalandoci quello stesso cuore, anatomico ed insieme emotivo e spirituale, che il pittore mostrò alla Fornarina. In fondo, c’è tutta una logica dei colori che la logica della mente non conosce, come ricorda Cézanne, e la protagonista dipinge il suo quadro con la sua stessa vita: ed è un quadro bellissimo, usa colori forti, pennellate decise, materiche, si impregna degli umori di Dioniso, si lascia essere con naturalità sul palcoscenico. E’ la struggente prostituta, la ragazzina, l’anziana Ghita che finisce nel convento riservato a tutte quelle Ofelie che non vogliono farla finita.
E’ una, nessuna e centomila, è la vita che si esprime in lei, la vita insieme festosa, confusa, chiassosa, felice, ma anche vigliacca, bastarda, tragica e tenera insieme. In un’ora, scorre nel corpo dell’interprete tutta la sabbia della vita di una donna, e non semplicemente quella vita, ma tutte quelle intorno a lei, così come, pirandellianamente, lei le sentiva dentro di sé. L’esistenza è un intero mondo pronto a esplodere, in forma di un incredibile big bang, in faccia al pubblico. E il pittore è una divinità che, come direbbe Nietzsche, deve fare i conti con il suo bassoventre, con le sue debolezze, diviso tra l’amore ideale del Socrate di Platone, e quello ubriaco, tormentato, malato e impossibile di Alcibiade. La pittura è spesso un parto difficile, addirittura podalico, la creazione artistica è tutt’altro che un percorso regolare. A guardare il quadro della Fornarina, si potrebbe pensare che tutto sia lì da sempre, in quella perfezione, senza un dopo e, soprattutto, senza un prima. Ma questo spettacolo ci ricorda quella terza dimensione, tutta squisitamente esistenziale, che sta dietro un dipinto, in bilico, nel suo farsi tra l’essere e il nulla di sartriana memoria. E poi ci sono quelle mani, e sarebbe un torto chiamarle semplici mani. Emergono dal buio con le decise pennellate di una luce color ocra, sono due Salomè che danzano senza che alcun Erode abbia chiesto di farlo. Sono un mistero, una eco lontana di chissà quale metafisico significato. Sono dèi che abitano sul traguardo delle braccia, sono quelle della modella e insieme del pittore, quella zona, terra di nessuno, dove l’eterno può comunicare con il bianco della tela. Si avverte quasi una sorta di sindrome di Stendhal nel vedere questa coreografia di dita che, al pari di punte di fiamma, non si può dire dove finiscano, e dove inizi lo spazio circostante.
L’attrice Giulia Bellucci, che ha contribuito anche alla drammaturgia, vibra di tutti i cromatismi di questa storia: ha la forza di una “Primavera” di Stravinskij, di un rito in cui l’umano celebra l’umano; si trasforma come un Proteo, insieme alla sua voce, e fa di uno spazio ristretto un intero paesaggio esteriore e dell’anima. Ha in sé tutto lo spirito di un Rinascimento insieme divino per produzione artistica, e tremendo per guerre e crudeltà, lo stesso che così efficacemente descrive Orson Welles nel “Terzo uomo”. Diventa un’intera sinfonia di vite, ascoltarla e vederla è un’esperienza multisensoriale, perché si ha l’impressione di sentire l’odore della farina che evoca, del sapone, del bucato steso al sole. Stende, allarga le braccia, e subito appare tutta l’apertura alare di un angelo che fa del palcoscenico un cielo. Il regista Giacomo Ferraù lascia il suo segno come un Socrate con i suoi interlocutori, fa partorire all’interprete tutti i personaggi, l’accompagna come un Virgilio, in questo incredibile viaggio. Disegna lo spazio scenico con tagli di luce precisi, e con un controluce che lascia allo spettatore una magnifica e devastante voglia di mangiare un impossibile pane metafisico, facendoci avvertire, attraverso il contorno dell’attrice, il profumo inconfondibile del lievito. La drammaturgia di Simone Falloppa e Giulia Vania, con il contributo di Giulia Bellucci e Giacomo Ferraù, diventa una sorta di microfono teatrale in grado di restituire allo spettatore, in presa diretta, tutte le voci di questa incredibile fenomenologia di un quadro, della nascita della tragedia e della commedia dallo spirito di un ritratto. Gli applausi generosi, attribuiti all’attrice e allo spettacolo tutto, sono oltremodo meritati.
Danilo Caravà
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