Il lavoro di Bertolazzi continua ad avere un’irresistibile fascinazione, al pari della città che racconta. Come la peste di Artaud, il morbo fatale che si prende a Milano è inevitabile: ti scende nei polmoni e lungo la schiena come una nebbia, come la “scighera”. E, vittime di quel dolce male, non si può fare a meno di avere una visione profonda dei paesaggi urbani e delle persone che li abitano, un grado zero, un rasoio non più di Occam, ma del “barbee”; insomma, si acquista la capacità di vedere le cose non per come appaiono, ma per come sono in se stesse. Sarà per questo che anche il grande Strehler è caduto, come un angelo dal cielo, su questa città e su questo testo; e, per l’identica ragione, Serena Sinigaglia l’ha fatto suo e, insieme, nostro.
L’ineffabile contraddizione che racconta la metropoli sia come un “conglomerato di eremiti” – nelle parole di Montale – sia come un posto di compassione, la Milan dal coeur in man, tanto per intenderci, vive, in maniera sublime, nella drammaturgia, e in questa terza tappa di rappresentazione al Carcano. Forse la migliore definizione di questa Mediolanum, terra di mezzo tra il corpo e l’anima, il sentimento e la ragione, è quella di laboratorio sperimentale, in cui la singola anima può prendere coscienza delle proprie ferite originarie. La Nina è l’inconscio collettivo di Milano: i suoi traumi, i suoi fiori, deciderà Baudelaire se del male o del bene, sono affidati alla platea tutta. Le sue contraddizioni, la sua disperata e disperante ricerca della felicità sono di tutti noi, e lo si potrebbe affermare con la forza con cui Flaubert affermava: “Madame Bovary c’est moi!”. Dietro il suo leggio, Lella Costa fa miracoli, e tira fuori dal ventre una Nina incredibilmente autentica; e, insieme, il padre Peppon, il feroce e viscido sfruttatore Togasso, nonché la Belle Hèlène, alter ego della Nina presso gli “sciori”.
Lo stato di grazia, il miracolo (zavattinianamente, se non a Milano, dove avrebbe potuto compiersi?) sono sicuramente favoriti dal dialetto, una lingua al cui fuoco non può che scaldarsi, il cuore, di emozioni profonde. Non un filo, non una traccia di melisma, di ornamento melodico da soprano di copioni teatrali, è presente nei fonemi dell’attrice, ma solo quei 21 grammi di anima, che pesano più di tutti i palazzi della città. Ci crede, ci crede davvero “la” Lella, come la Sonja di “Zio Vanja”, secondo i desideri del buon vecchio Stanislavkij; vera come il freddo di certi inverni meneghini, che vale più di mille “cogito” cartesiani. Come vibra di antiche risonanze aediche questa laringe, come si fa potente abbraccio, e come ti accarezza lungamente, dall’inizio alla fine. Il coro di cittadini, aderenti ai laboratori Atir, diventa un organismo pluricellulare, pronto a esprimersi organicamente nelle varie dinamiche sceniche: ora circo/Tivoli tragicomico, ora incarnazione dello spettacolo d’arte varia dell’umanità milanese, durante l’estrazione del lotto, o nella mensa collettiva.
L’amore impossibile fra popolo e “sciori”, a sua volta, è incarnato da una giovane coppia, che si abbandona alla trance di questa scena. Si riesce poi, fregolisticamente, ad incarnare i viveurs da Galleria e le domestiche da palazzo, in un’azzeccata forma straniata – scriviamolo pure: brechtiana -, e un plauso va tributato alla regista per la felice intuizione. La scenografia è composta da sottili veli serici, riecheggianti, ancora una volta, la struttura del Duomo: come lo definisce una canzone, “una cava di marmo col velo da sposa”. Ma i veli diventano, in sovrammercato, sipari, anche e soprattutto interiori, per accorgersi di quanto sia profondo il mare di emozioni che abitano la Nina. Tutta la grande magia del “Nost Milan” è stata ben espressa, e portata a compimento, in questo ultimo capitolo della trilogia. Qui troviamo la piena espressione sia dell’aspetto politico (nel pieno senso etimologico della polis, della città, coi suoi affari finanziari e sociali), sia dell’aspetto individuale, microscopio psichico usato per accorgersi quanto i vetrini dell’anima nascondano tutto un mondo pronto a essere scoperto, proprio come questa città.
Danilo Caravà
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