Recensione: “Dentro la tempesta”

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Per molte persone, forse la maggior parte, può risultare difficile provare empatia per chi è finito in carcere. Specie se ci è finito per “associazione mafiosa”. Se a teatro si vanno a vedere spettacoli che trattano la criminalità organizzata, di solito si usano gli occhi di un personaggio che la sta vivendo in prima persona. In quel tempo scenico quella persona è carnefice, è vittima, è eroe e martire.

In “Dentro la Tempesta”, tratto dal libro “La Tempesta di Sasà” di Salvatore Striano, si vede invece cosa la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta si lasciano dietro, dopo che la fase attiva è finita. Una volta che vieni preso, non servi più. Sei un pezzo sostituibile.

Lo spettacolo di Striano, ex camorrista e già protagonista del docu-film “Cesare deve morire” vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2012, non parla di 41 bis, ma di due uomini che in carcere trovano un modo per superare la routine della prigionia, di evaderla senza infrangere la legge, aspettando il momento della libertà. Sasà (Striano) e Carmine (Carmine Paternoster) sono vicini di cella, parlano attraverso il muro che li divide, condividendo ricordi, pensieri e opinioni sugli altri carcerati e molti sull’avvenente direttrice (Beatrice Fazi). Non sono idealisti, non si piangono addosso. Sono consapevoli delle loro azioni, ma non ne fanno la caratteristica principale del loro modo di essere. È uno scenario reale perché “Dentro la Tempesta”, nella sua ora e mezza, offre un piccolo squarcio della vita di un carcerato, uno squarcio veritiero e autobiografico, tanto che i due attori usano i loro nomi e cognomi.

dentro la tempestaCostretti in uno spazio claustrofobico, gli attori dialogano senza vedersi. Sono veri prigionieri del palcoscenico, sotto lo sguardo del pubblico vigilante. La tempesta del titolo fa riferimento alla loro vita tumultuosa, alle azioni che li hanno portati ad essere lì, a tutte le guerre che hanno combattuto.
Poi, la tempesta diviene quella delle parole dei grandi autori: Shakespeare, Beckett, Dante… Le loro parole turbinano nella mente dei protagonisti, offrendo nuovi spunti di riflessione mai sfiorate prima. Da illetterati, soliti a farsi le canne con le pagine della Bibbia, a profondi amanti della letteratura e soprattutto del teatro, che diventa un’occasione di svago nel carcere e si svela essere la professione desiderata da Sasà, Carmine e della direttrice, rivelando una passione in comune.

Per Salvatore Striano, il carcere ha rappresentato una seconda occasione, fatta di apprendimento e di arte, cose che prima non aveva mai avuto la possibilità di avvicinare.
Non si vuole suggerire che i carcerati siano tutti santi pentiti, né tantomeno che lo siano chi è libero e con la fedina penale pulita, ma il fine è quello di raccontare una storia.
Lo spettatore, trovandosi di fronte a chi ha voluto dare una possibilità all’arte, può pensare di rivedere l’idea che ha di chi è in carcere, ma non in termini di perdono, che nessuno gli richiede, ma in termini molto più pratici: abbandonando la morale fine a se stessa, si può pensare in termini nuovi all’organizzazione interna delle istituzioni penitenziarie.

Marta Zannoner

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