Recensione: “Cous Cous Klan”

cous cous klan

La rivoluzione POP di Andy Warhol aveva capito quanto i codici linguistici o simbolici fossero importanti come ponte sull’immaginario comune del proprio tempo, per poter tornare ad un’arte universale, in un mondo sempre più globale.

Così un racconto apparentemente sporco, lontanissimo dalla nostra quotidianità e situato nel tempo in un futuro distopico, può invece diventare uno specchio fin troppo realistico dell’animo umano e delle sue complessità.
Cous Cous Klan della compagnia Carrozzeria Orfeo, in scena al Teatro Binario 7 di Monza, riesce proprio in questo: a usare una storia di genere quasi cinematografico riempendola di contenuto concreto e maturo, senza mai dimenticarsi del pubblico che viene letteralmente rapito dall’inizio alla fine della messa in scena.

La cura messa in questa produzione, come metodologicamente in tutto il loro percorso creativo, è da subito chiara e ambiziosa. Tutto funziona come un orologio svizzero con un rigore metrico che potrebbe far combaciare immagini e parole su di un pentagramma.

La drammaturgia coraggiosa e senza fronzoli di alcun tipo di Gabriele Di Luca riesce a costruire una storia e dei personaggi pieni di sfaccettature e contraddizioni. Sono più veri del vero. Nei loro contrasti le differenze, il razzismo o l’omofobia sono rappresentati in tutta la loro fragilità e pochezza di fronte al vuoto che li divora e che allo stesso tempo li genera. Eppure, per quanto questi personaggi possano racchiudere il peggio che il moralismo o il politicaly correct possa disprezzare, in realtà dimostrano una grande umanità ferita. Insieme, volenti o dolenti, sono una famiglia a tutti gli effetti. Uniti in un infausto destino. Mai però, il drammaturgo, si perde nella contrizione o nel paternalismo. Riesce anzi ad utilizzare una ironia graffiante e trascinante.

Trama: In un futuro prossimo l’acqua e le materie prime iniziano a scarseggiare. La società estremizza il suo potenziale classista dividendo il mondo da chi sta dentro e chi sta fuori i recinti della città. Fuori ci sono i reietti. Tra roulotte sgangherate e resti di macchine arrugginite vivono due fratelli e una sorella che cercano di sopravvivere come possono alle dure condizioni di vita imposte dalla situazione. Un giorno entra nelle loro vite Nina, una ragazza uscita dal nulla e che sconvolge la piccola comunità arrivando a diventarne la guida. Attraverso di lei si troveranno davanti ad un bivio di riscatto sociale che, però, dipenderà tutto dalla loro scelta.
In un certo senso il personaggio di Nina dimostra quanto abbiamo bisogno di una guida, anche se bizzarra, che possa ridare speranza e riaccendere quella parte di sé perduta nella delusione e nella frustrazione.

La regia a tre di Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi e Gabriele Di Luca restituisce a tutte le parti dello spettacolo una coralità molto potente e senza sbavature. Tutto e ben cucito ed intrecciato.

In scena a dare vita ai personaggi ci sono Angela Ciaburri, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Beatrice Schiros, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi. Interpreti eccellenti che hanno saputo trasformarsi e immergersi in ruoli che solo attori di grande esperienza e capacità, potevano affrontare.
Le scene di Maria Spazzi sono praticamente un quadro vivo, un tassello fondamentale di questa messa in scena. Sa essere vera ed evocativa allo stesso tempo. Insieme ai costumi di Erica Carretta, le musiche di Massimiliano Setti e le luci di Giovanni Berti chiude un cerchio che permette agli attori come al pubblico un immediato coinvolgimento.

Questo spettacolo quasi mastodontico, prodotto dalla compagnia Carrozzeria Orfeo, dal Teatro dell’Elfo, Teatro Eliseo, Marche Teatro e in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana e la Corte Ospitale di Rubiera, va certamente visto.

Michele Ciardulli

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