Recensione: “Chicago Boys”

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Foto Laila Pozzo

Si scrive Chicago Boys, si legge uno show cinico ma realista

Teatro nudo e crudo, che arriva dentro le viscere, quello in scena al Teatro della Cooperativa dall’8 al 19 novembre. Per tutti coloro che vogliono capire più da vicino le dinamiche subdole dell’economia mondiale che mercificano l’uomo, privandolo della sua dignità, questa è la pièce giusta.

Sotto la vorticosa e lucida regia di Renato Sarti, un vortice che non perde mai lucidità, ecco un irriverente dialogo, con Massimiliano  Loizzi ed Elena Novoselova, a tratti con le sembianze di un monologo, sulla potenza divoratrice del capitalismo, che tutto impone, tutto infrange, tutto tritura.

Così, mentre i pannelli video denunciano i vari signori del potere ed il potere che vari signori hanno prodotto, tra gli anni settanta ed ottanta del ventesimo secolo, dopo aver studiato economia all’Università di Chicago, indottrinati dalle teorie machiavelliche di Milton Friedman,  applicando il verbo economico in Cile ed in gran parte dell’America latina, mettendo in atto una vera e propria industria produttiva a discapito di uomini, donne, bambini, anziani, ecco un elegante e sibarita finanziere, immerso in una putrida vasca da bagno che calpesta con finissimi e costosissimi stivali prodotti unicamente da un signore in Texas, urlare, sbraitare, comandare una prostituta russa, succube delle sue volgari richieste. I due tengono un convivio suddiviso in nove lezioni sull’operato dei Chicago Boys, esaltato da questo spietato vate della finanza in cerca di proseliti.  Dietro di lui, c’è plasticamente rappresentato il despota capitalista, che da vero despota che si rispetti, beve due volte. Beve continui bicchierini di whisky, alternati a veloci sniffi di cocaina, e manda giù, senza alcuna difficoltà, l’acqua marcia dei più efferati effetti economici. Il suo servo, la malcapitata ragazza sovietica, che ne segue supinamente e rovinosamente gli ordini, altro non è che la personificazione di tutte quelle realtà deboli prese d’assalto, finite dentro la rete immane del consumismo  sfrenato.” Libera volpe in libero pollaio, privatizzare, privatizzare, privatizzare”. Questo il mantra ripetuto più volte, fino allo sfinimento.

E’ abile Sarti ad imbastire questo dualismo sotto forma di un grande e folle monoteismo: autoproduzione continua ed irrefrenabile di usi ed abusi del colosso occidentale, ai danni di tutta quella umanità che c’è dall’altra parte, utilizzata solo perché porta ad un tornaconto economico, per quella virgiliana “sacra fames auri” (“sacra fame dell’oro”).   

Questo furibondo apologeta della causa finanziaria sembra, in fondo, l’empio Erisittone, che tutto mangiava, fino a mangiare se stesso, rinchiuso in un pantano acquoso e melmoso in cui fa tutto: urla, spara sentenze e gode della compagnia della sopracitata ragazza russa.

L’infausto succedersi dei soprusi, viene espresso con un goduto e quasi bestiale compiacimento di una specie di panurgo, cioè un uomo capace di tutto. Ad essere messa a fuoco è la creazione di una vera e propria industria produttiva, che approfittando delle sciagure, come l’uragano Katrina, del 2005, taglia e sacrifica vite a dismisura. Sembra riecheggiare il monito della favola delle api, del filosofo De Mandeville: vizi privati, pubblici benefici. Questo magnate del consumismo finisce per consumare se stesso, riducendosi a mero animalaccio, ganglo di bisogni sessuali e di ordini da impartire.

Il potere logora chi non ce l’ha? In questa dura rappresentazione fa invece collassare chi lo impone, incapace di accorgersi d’altro, di notare che quella che pensava  essere Svetlana era in realtà la sorella Irina. Triste epilogo, che il metodo Chicago Boys  ha prima teorizzato e poi concretizzato nelle varie zone del mondo.

Luca Savarese

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