Recensione: “Cercivento”

cercivento
foto Giulia Agostini

La sala Bausch del Teatro dell’Elfo dal 15 al 28 novembre accoglie Cercivento, uno spettacolo di Carlo Tolazzi per la regia di Massimo Somaglino con Alessandro Maione e Filippo Quezel.

Un lumino che si spegne chiude l’ultima ora di vita e l’ultima luce di speranza di due soldati, Basilio e Angelo, alpini a Cercivento, impegnati in guerra contro gli austriaci nel 1916.

Rinchiusi nella canonica del paese, in un cerchio di semplici oggetti quotidiani del fronte, attendono l’esecuzione e cercano di scacciarla con piccoli riti di speranza.

Basilio e Angelo sono due soldati comuni, uguali nelle disgrazie e nell’umanità, ma diversi nel carattere e nella fibra: uno della Carnia e l’altro di Maniago, inaugurano un dialogo dove si intrecciano sogni, preghiere, attese di grazia e riflessioni.

I protagonisti in scena sono condannati alla fucilazione perché accusati, insieme ad altri due, di essere “gli agenti principali della rivolta”: in realtà la ribellione di cui si parla altro non è stata che una rimostranza nei confronti dell’ordine impartito di attaccare gli austriaci. Dato senza logica e ponderatezza, era chiaro per tutto il battaglione che conosceva molto bene quelle montagne, che sarebbe stato un attacco suicida ma nessun tentativo di spiegazione venne accolto.

Basilio, vittima della sua paura, si attacca al suo filo di speranza: bisogna pregare, il prete tornerà con la grazia del re, perché loro non hanno fatto niente, perché non hanno colpa, perché cos’hanno fatto loro quattro, unici condannati alla fucilazione, di diverso dagli altri? E come faranno la Lucia e il piccolo senza di lui?

Angelo, più razionale, meno solito a farsi sorprendere dalle emozioni, quasi un mulo al lavoro e nei pensieri, si chiude nel suo amor di patria, nel suo sguardo fisso al muro, nel suo sentimento di iniquità nei confronti della vita e delle situazioni. Lui, il più duro, che ha sognato giorni prima la fucilazione, viene incalzato dalle domande del compagno che cerca di sublimare la paura cogliendo tutti i dettagli della sua descrizione onirica.

Le riflessioni dei due soldati partono da premesse differenti, come diversamente sembrano affrontare la condanna, ma più passa il tempo e più vengono sviscerati i fatti che hanno portato alla triste situazione, più si rendono conto – e ci si rende conto – della loro comunanza umana: poco importa se si era al fronte perché obbligati o per la patria, loro due, Angelo e Basilio, sono stati puniti per dare il “buon esempio”, per le inettitudini e l’ottusità di un superiore che non ha voluto ascoltare i consigli di chi le montagne le conosce, perché la loro condizione è la stessa. Lo sa bene Basilio, che sogna una pace raggiunta grazie a un pallone da calcio lanciato tra le trincee, con italiani e austriaci uniti in fratellanza da un bicchiere di vino, con i gradi militari evaporati insieme ai “Signor sì, signore”. E a quel finale piuttosto che a un altro, ci si aggrappa anche Angelo anche se, alla fine, è solo un sogno.

Alessandro Maione e Filippo Quezel sono guidati magistralmente in questa ripresa dello spettacolo da Massimo Somaglino, che in uno spazio ristretto da oggetti poveri e sacri allo stesso tempo, fa vivere, con la forza della fibra e delle emozioni, due corpi che non hanno bisogno nemmeno dei loro stivali, a piedi nudi nel rito dell’attesa. La drammaturgia, vibrante e trasparente, accompagna lo spettatore senza legarlo alla pesantezza o alla disperazione, ma lo prende per mano e lo invita in uno spazio di vita che pulsa ancora di sogni e di speranze seppur nella sua ultima ora. Maione e Quezel sostengono un dialogo reale, potente, vicino ai piccoli soldati, fatto di piccole cose, parole semplici, come gli oggetti che li circondano. Un’interpretazione attenta, profonda e commovente che unisce ogni singolo spettatore davanti a questo pezzo di storia, che altro non è – per tutti e in tutti i sensi – che un’ora di vita vissuta.

Vera Di Marco

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