Definita dalla critica americana come una delle opere più significative del XX secolo, Angels in America di Tony Kushner deve confrontarsi con il pubblico oltreoceano nel XXI secolo a Milano all’Elfo Puccini. Intitolato anche Fantasia gay sui temi nazionali, si tratta sicuramente di uno spettacolo di alto livello: un vero viaggio nelle contorte profondità dell’autore, che estrapola quella che può essere recepita come frustrazione, liberazione, angoscia e una sorta di vendetta, che si manifesta in più modi lungo la messa in scena.
Procediamo con ordine. New York, 1990, c’è Prior che si scopre malato di AIDS, in un periodo in cui l’AIDS era molto più forte della scienza; c’è Louis, il fidanzato di Prior che lo abbandona nel momento del bisogno; ci sono i coniugi Pitt, che devono fare i conti con l’omosessualità latente del marito Joe; c’è Roy Cohen, un vero e proprio avvocato del diavolo, malato di AIDS a sua volta. E poi c’è Belize, ex drag queen, la voce della verità, il personaggio più concreto e amato.
Le tematiche che si intrecciano sono tante e, senza soffermarci su quelle scontate, il delirio scenico che ne deriva è direttamente proporzionale a ciò che accade nella mente dello spettatore, che si ritrova catapultato in un mondo ritmico, veloce, fatto di visioni, piume di struzzo, guide turistiche che escono dal frigorifero, antidepressivi, depressione e religione. Tutti elementi che insieme si mescolano e danno vita a questo Premio Pulitzer del teatro americano, riportato magistralmente in scena dalla compagnia del Teatro Elfo, guidata da Elio De Capitani e Ferdinando Bruni.
Tuttavia c’è qualcosa che non torna appieno, che non arriva completamente. Chi si trova in questa condizione di mancata empatia totalizzante con il resto della platea qualche domanda se la deve porre. Cosa è andato storto nel processo? Insomma, tutti avvertiamo la nostalgia per epoche mai vissute, non che la New York degli anni ’90 afflitta dall’AIDS sia una di quelle, a meno che non si tolga la seconda parte della frase, però sicuramente in noi si è creata una sorta di ammirazione per quel Nuovo Mondo fatto di possibilità. Tanti film ce l’hanno raccontato facendocene innamorare. Ma anche in questo caso era in un altro momento storico. Ora cosa ci rimane. Qualcosa è andato storto non solo sul palcoscenico, ma a livello storico. Angels in America parla di tematiche che ora come ora non ci toccano appieno, che qualcuno potrebbe percepire distanti, di un mondo che nonostante tutto era più bello allora.
Se l’Angelo piange la scomparsa del suo dio, se Prior piange l’abbandono del suo uomo, se la moglie di Joe si imbottisce di medicine per combattere la sua solitudine, di cosa ci parlano oggi? La menzogna sociale rimane attuale, così come il cerone con cui ciascuno si cosparge la faccia prima di uscire in strada. Ma le ammonizioni divine sui mormoni d’America poco hanno a che fare con le ipocrisie cristiane a cui siamo abituati. Più vicina potrebbe essere invece la pulsione liberatrice che scalcia per divincolarsi dalla depressione, dalla malattia, dalla religione, se non fosse che troppo spesso è portata in scena con estremo isterismo e che non ne lascia quindi afferrare il combattimento interiore più ostinato. Si apprezzano invece le esondazioni al di là del realismo nei momenti più visionari che traghettano lo spettatore dentro i sogni, le allucinazioni o le irruzioni del divino. Allo stesso modo si può godere per qualche attimo delle verità cruciali su cui è intessuto lo spettacolo grazie al personaggio di Belize, a cui va senz’altro un plauso per l’interpretazione e la perfetta corrispondenza tra attore e personaggio, che è capace di richiamare lo spettatore all’essenzialità nuda e cruda. Di quella che mette tutti di fronte alla realtà e pretende un confronto, chiama in causa, provoca una reazione da parte degli spettatori, che altrimenti troppo spesso rischierebbero di rimanere trasognati in una terra oltreoceano di un’epoca distante.
Alessandra Pace & Marta Zannoner
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