“Alla mia età mi nascondo ancora per fumare” afferma, con ordinaria tranquillità, una delle nove attrici dello spettacolo diretto da Serena Sinigaglia e in scena al Teatro Carcano fino a domenica 25 novembre. Le scivola dalla bocca come per abitudine e allo stesso modo si accende una sigaretta e aspira, poi rilascia. Viene da pensare che, spesso, la vita di una donna islamica, in certi contesti, sia proprio così: trattenere il respiro, le parole, i dolori, persino la gioia e la passione, non sapendo però quando potrà rilasciarli e dargli spazio al di fuori di sè, lasciarli un po’ andare, alleggerirsi l’anima. Perché essere leggera è un privilegio, per una donna che indossa l’hijab; essere femmina prima che moglie o madre, è un lusso inaccettabile per una che nasce in un mondo di uomini coi pugni chiusi, senza carezze, senza bontà.
Il testo da cui è tratto lo spettacolo è opera di Rayhana, pseudonimo di un’autrice algerina che da anni vive in Francia, la quale ha scoperto, a sue spese purtroppo, che anche in Occidente una donna non è sempre libera di parlare. Alla donna viene spesso tappata la bocca, vengono legate le mani e i capelli, vengono coperti i seni e il sesso, anche in Europa, in Italia, dietro casa o al piano di sotto. Sapere questo, tenerlo bene a mente durante la visione, accresce la potenza dello spettacolo che già di per sé emana un’incandescente aura di delicatezza e forza, tutta al femminile. Nove attrici per un’opera corale ed universale, che si concentra sul rapporto uomo-patriarca e donna-serva nella società musulmana ma che si eleva al di sopra delle nazioni e delle religioni, oltremare, oltre il cielo di Algeri e urla alle donne del mondo, agli uomini, loro figli, loro amanti, che la violenza esiste e si dilaga per le strade, tra le case, senza nascondersi necessariamente sotto il fondamentalismo islamico, tra le pagine del Corano o in una moschea divisa per genere.
L’opera si svolge all’interno di un hammam, che nella tradizione araba è il luogo preposto al lavaggio del corpo (e metaforicamente dello spirito), che ospita alternativamente solo donne o solo uomini. Si tratta quindi di uno spazio estremamente intimo che diviene, non a caso, universo di vite femminili che si intrecciano e a volte collidono: ogni personaggio rispecchia, in un certo qual modo, le variabili e le costanti dei rapporti coniugali tra musulmani, bilanciate dalla figura di Samia, la più infantile tra le donne e la meno segnata dalla vita, che crede ingenuamente nell’amore e strenuamente lo cerca, come se non mettesse in conto il dolore o l’umiliazione, la sopraffazione che le sue compagne e clienti hanno esperito e raccontato.
Quello che colpisce dell’intera pièce e che poi si deposita nello spettatore, è la sua completezza, soprattutto a livello tematico: il fondamentalismo si intreccia alla tacita ribellione di donne mentalmente indipendenti, il divorzio rappresenta l’altra faccia di un matrimonio tutto sommato sereno e la ricerca dell’amore urta contro la rassegnazione e l’abitudine, contro l’abuso e la prepotenza. La forza vibrante dello spettacolo si esercita soprattutto nei monologhi, nell’intimità piuttosto che nella coralità, che a volte può assumere un eccessivo sentimentalismo o un femminismo forzato. I momenti in cui ogni donna si confronta con il proprio vissuto e lo espone al pubblico senza vergogna, senza paura, anzi spesso con ironia, condensano il senso profondo del testo, di ogni storia o gesto.
La Sinigaglia torna a parlare al cuore e lo fa, come al solito, passando innanzitutto dalla mente, abituandoci velocemente ad uno scenario e trasportandoci all’interno di una tematica forte, per poi accompagnarci con delicatezza e a tratti con veemenza tra le radici del sentimento, quello vero, genuino, che nasce dal battito e si snoda in ogni centimetro di corpo. Ciascun elemento dell’opera, dalla bravura delle attrici alle suggestioni drammaturgiche, concorre a delineare il quadro di un mondo che, oggi più che mai, ci tocca da vicino, anzi ci strattona, ci obbliga a dare attenzione ai suoi interrogativi, alle sue contraddizioni. Qual è il limite tra religione e libertà, tra amore e vincolo?
Resterà al buio un cielo illuminato solo da flebili stelle morte, così come si spegneranno gli orizzonti della Terra in cui le donne saranno costrette a nascondere la propria luce e reprimere il loro amore. Si parla del loro diritto a sussurrare parole dolci all’orecchio degli amati nella notte, a urlare di giorno se gli si schiaccia la testa per terra e il cuore sotto i piedi, a vivere sapendo di morire al momento giusto e non per mano di nuvole dette violenze e turbini detti soprusi, ma sotto un cielo di stelle vive e libere, meravigliosamente libere di splendere.
Giuseppe Pipino
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