Recensione: “Alfredino”

alfredino

Pubblichiamo con piacere la recensione inviataci dalla nostra lettrice Chiara Bertazzoni.

Non è sempre facile scrivere la recensione di uno spettacolo che ci è piaciuto. Almeno per me è così. Mi ritrovo ad aver paura di essere banale, di non riuscire a trasmettere davvero i perché giusti, di limitarmi a un semplice, per quanto sincero, “bello”. Forse è anche questo il motivo per cui non scrivo recensioni così spesso.
Ci sono spettacoli, però, che mi smuovono e che mi costringono, nel senso più positivo del termine, a sporcare la pagina bianca e a dire i miei “perché sì”.
Alfredino, l’Italia in fondo a un pozzo è uno di questi. Andato in scena venerdì 6 aprile presso il teatro Binario 7 di Monza, purtroppo con una sola data.

Lo spettacolo racconta la storia di Alfredo Rampi, conosciuto ai più come Alfredino, una storia che ha scosso generazioni, che ha tenuto incollata l’Italia alla televisione per giorni e che è ancora oggi nella memoria e sulla bocca di molti. Non si limita, però, a questo. Lo spettacolo riesce a essere un ponte tra ora e allora, tra l’Italia che eravamo e quella che siamo.
Perché la tragica storia di Alfredino e del pozzo di Vermicino è il fulcro della vicenda, attorno a cui, però, si muove un’Italia variegata e goffa, fatta di cuore e di errori, ma soprattutto di uomini e donne. Una Italia che da quel 1981 è cambiata, certo, ma che conserva ancora le sue radici e i suoi tratti distintivi. Nel bene e nel male.

In questo spettacolo la drammaturgia, la regia e la recitazione si muovono in completa sintonia a creare un mosaico composto da tanti tasselli che ci raccontano uno spaccato dell’Italia dell’inizio degli anni ‘80, con un occhio speciale sull’umanità. L’umanità di padri e madri che hanno pregato per quel bambino, di bambini che ancora oggi se ne ricordano, dei giornalisti che hanno dato il via a una nuova forma di televisione, delle autorità che si sono trovate a dover fare qualcosa, dei soccorritori che hanno agito più di istinto che con competenza.

Tutto questo prende vita grazie a Fabio Banfo, autore e unico attore in scena, che entra ed esce dai personaggi, che è prima di tutto narratore di questa storia, ma anche, giornalista, madre, bambino, brigatista, italiano… Che si mette al servizio e ridà vita, con una grande prestazione, a ciascuno di loro. Molto azzeccata la scelta di far comparire i personaggi una sola volta, come se ciascuno fosse racchiuso in un quadro, collegato agli altri dal narratore.

Anche la regia di Serena Piazza è complice della costruzione sapiente di questo tessuto: ogni quadro una cifra caratteristica, sia essa una tecnica di recitazione o un colore, una luce o un linguaggio…
Ogni tassello al suo posto e il pubblico non può far altro che pensare, emozionarsi, partecipare. E questa è forse la cosa più bella: questo spettacolo ti mette in moto, ti attiva a livello mentale ed emotivo, ti fa venir voglia di approfondire, ti fa andare via alla fine un poco diverso da quando sei arrivato. Certo è una storia emotivamente impegnativa. Magari farà anche piangere, ad alcuni porterà a galla ricordi non felici, ma non è meraviglioso riuscire ancora a emozionarsi?

Quindi il consiglio è quello di tenere d’occhio questo lavoro, di aspettarlo e di correre a vederlo appena se ne ripresenterà l’occasione, nella speranza che sia di scena per più di un giorno perché ne vale la pena!

Chiara Bertazzoni

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