Edward Albee prende l’essere umano esattamente dove lo ha lasciato Freud: sempre sull’orlo di una crisi di nervi, psicopatologicamente condizionato da una società che baratta l’enfant sauvage con una tonnellata di nevrosi. Ma ciò che davvero fa la differenza è la possibilità, da parte del drammaturgo, di trovare la chiave verbale giusta per aprire le serrature di un buon dialogo. In due atti unici, che corrono dritti e veloci come un Tgv, si scopre come l’uomo, la bestia e la virtù, di pirandelliana memoria, siano giocati alle tre carte; nella platea cresce, fatalmente, la voglia di puntare sulla carta che vince, ma la mano dell’autore è più veloce dell’occhio dello spettatore. Nel primo atto unico, Vita casalinga, una moglie e un marito compiono il miracolo di regalare a Strindberg l’insostenibile leggerezza di uno Ionesco: la battaglia tra i sessi è tutta giocata su di un sottile bel esprit, in cui la risata diventa una sorta di atanor, fornello alchemico in grado di sublimare il dramma in commedia, battuta dopo battuta. E’ sempre quella cara piccola borghesia votata a diventare un eterno esperimento sociale, per verificare se l’uomo civile sia più in gabbia delle bestie di uno zoo. Si assiste a una partita a tennis fonetica, in cui si alternano eleganti volèes di umorismo a seri rovesci lungo linea, che ti lasciano lì, nell’impossibilità anche solo di credere di poter correre verso la palla, e ribatterla. Gli unici, autentici, momenti di verità sono nel cortocircuito, in quella immancabile psicopatologia della vita quotidiana, dove l’irrazionale prende il sopravvento, e l’animalità, l’istinto, diventano, almeno per un secondo, un atto puro. Basta uno schiaffo per lasciare un segno rosso sulla guancia della vita: uno di quelli che bruciano per un po’, e sono maledettamente reali, come una giornata di freddo pungente. Il secondo atto unico, Storia dello zoo, è il disperato tentativo di comunicare, di rompere i formalismi del linguaggio, ovvero quel pilota automatico dei rapporti sociali, quel farsi parlare dalle parole, piuttosto che scegliere la via impervia della comunicazione.
Un tranquillo uomo sulla panchina, che sembra idealmente uscito da una vignetta francese, non può godersi il suo libro, perché c’è un altro che ha urgenza di raccontare la sua storia. Quest’ultimo è una sorta di Socrate del West Side più squallido, un workingclass antihero, con la parlantina facile, che dà alla luce verità meglio di una levatrice: uno di quelli che ti sbatte in faccia la vita, con tutti i suoi odori più scomodi. E’ Raskolnikov stranito, e prigioniero della suburra newyorkese, con più anima da fiatare addosso all’altro di quanta se ne potrebbe immaginare. In buona sostanza, è l’immagine di quell’inconscio con cui, volente o nolente, bisogna fare i conti. Diventa lo sguardo di una tigre, la stessa che appare come maschera in entrambi i testi, e che ha, per gabbia, la vita stessa. Si può combattere per una panchina con una danza biomeccanica, con una tensione crescente, perché il dio della carneficina reziano ha necessità che l’ara dei sacrifici sia sempre fumante di nuova carne. La regia di Bruno Fornasari si immerge giù giù, nelle profondità della psiche dei personaggi, e ogni battuta, ogni gesto, odorano decisamente di tutta una stratificazione di intenzioni: si riescono a cavar fuori pietre roventi di anima. Valeria Perdonò incarna una moglie che ha una maledettissima paura di Virginia Woolf, ma, ancora di più, di tutta quella vita non vissuta, non appagata, che ormai ha formato una collinetta sotto il tappeto delle apparenze. Si trucca magnificamente con un sorriso, in grado di seppellire, del tutto, lo stantio dramma borghese. Michele Radice interpreta il marito: prima riluttante alla boxe verbale cui lo spinge la moglie, se ne lascia poi conquistare, fino al punto di rendersi conto che l’animalità può diventare una provvisoria catarsi. Nel secondo atto, sta sulla sua panchina come un naufrago ancorato a uno scoglio, e il cinebrivido, che finirà col provare in questa scena, sarà ancora più potente e determinante. Tommaso Amadio non è un corpo: è il corpo, l’essere umano caravaggesco che vive primariamente nella fisicità, e racconta la storia del cane con l’immediata efficacia di un Mr.Orange de Le iene, quando narra l’aneddoto del bagno e della droga. A fare la differenza, in una storia, sono i dettagli, le mani che si aggiungono ai fonemi per dar loro forza, per plasmarli in qualcosa di concreto. E, dove non arrivano le parole, arrivano le dita, che raccontano l’anima meglio di quanto potrebbe fare essa stessa. Gli applausi per questo zoo, di vetro, in frantumi, sono tutti meritati.
Danilo Caravà
Strepitosa recensione … un’opera nell’opera! Grazie