E Johnny prese il fucile: semplicemente una vita

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“E Johnny prese il fucile” è un contenitore di vicende, storie ed emozioni inscindibili.

La scena è contaminata da accadimenti avulsi dallo spettacolo stesso.

C’è la vita determinata e coraggiosa dell’autore del libro da cui FERRENTINO ha tratto la performance teatrale: Dalton TRUMBO, sceneggiatore di Hollywood tra gli anni ’40 e ’70, comunista e proscritto al lavoro nel cinema in quanto tale dopo essersi fatto 11 mesi di carcere per “attività antiamericane”. Dotato di un talento eclettico vinse due OSCAR (uno con lo pseudonimo RICH per i motivi di cui sopra) e sceneggiò pellicole come “Vacanze Romane”, “Spartacus” e “Papillon”. Lui stesso ha ispirato due film: “Il prestanome” e “L’ultima parola”.

C’è la storia del libro (1939): diario “pensato” di un grande invalido della prima guerra mondiale, uscito pochi giorni dopo lo scoppio del secondo conflitto e immediatamente ingaggiato ad icona del pacifismo.  Da subito è sottoposto allo stravagante destino di “sparire” ogni qualvolta gli U.S.A. vengono coinvolti in una guerra.

C’è, con incredibile anticipo su tutto e tutti, la riflessione sull’eutanasia e sull’accanimento terapeutico.

C’è la condanna senza riserva o giustificazione alcuna della guerra.

C’è la scelta drammaturgica dell’audio-dramma. Come in altre occasioni (non è questa la prima sortita teatrale delle FONDERIA MERCURY) lo spettatore segue lo spettacolo attraverso i suoni che arrivano alla radio-cuffia per mezzo di un microfono binaurale. Questo tipo di microfono ha la peculiarità di essere a forma di testa umana. Non a caso. L’attore in scena utilizza questa testa come una mappa sulla quale indirizzare la voce e di conseguenza lo spettatore ha una percezione a 360 gradi sull’origine del suono.

Ma non è solo una questione tecnica. Quel simulacro di uomo in scena non può non farci pensare a Johnny ed il legame sonoro con il palco si evolve in un intreccio emotivo che va oltre la dimensione acustica; sentire diventa il sentire e lo spettatore viene trascinato nel groviglio di sentimenti che sconvolge il giovane soldato americano condannato ad un letto di ospedale.

Con lui scopriamo l’angoscia delle ferite: cieco, sordo, impossibilitato a respirare in modo autonomo, privato della lingua, delle braccia e delle gambe.  Riusciamo vedere i suoi sogni, a conoscere la giovane fidanzata lasciata in Colorado: Kareen.

Condividiamo la sua gioia quando finalmente attraverso l’alfabeto MORSE riesce a comunicare.

Seguiamo l’evolversi del suo pensiero e la presa di coscienza di sé come “la cosa più vicina ad un morto” e l’acquisizione della consapevolezza di “sapere tutto ciò che conoscono i morti”. Di detenere, quindi, la Verità.

Grazie a lui ora sappiamo che non c’è un parola detta da altri (sia essa Patria, Democrazia, Libertà) che valga la vita e che tutti sono morti con un unico pensiero in testa:VOGLIO VIVERE. “Solo i morti sanno se vale la pena morire per tutte le cose di cui la gente parla ed i morti non possono parlare”. Ma Johnny può! Se solo lo facessero uscire! Anche se messo in una cassa di vetro, come fenomeno di circo.  Queste sono cose che Johnny potrebbe raccontarci.

Ma la verità è destinata a rimanere confinata in quell’ospedale.  Johnny è un quarto di bue appena macellato buttato su un letto e condannato a pensare.  Johnny non potrà uscire e raccontare, non tanto per le sue condizioni oggettive di invalidità, quanto perché “contro il regolamento”.

E a questa ultima ingiustizia Johnny si ribella rammentandoci, qualora ce ne fosse bisogno, che essere pacifista non vuol dire essere pacifico: “Ricordatevelo bene voi seminatori di odio. Noi siamo uomini di pace…ma se voi distruggerete la nostra pace, se tentate di metterci gli uni contro gli altri noi sapremo cosa fare.” Dateglielo ora un fucile a Johnny e lui saprà contro chi rivolgerlo.

Un finale per nulla conciliante a chiusa di un’opera che non lascia indenni.

Roberto De Marchi