Intervista ad Arianna Porcelli Safonov

Milano Teatri sta supportando gli spettacoli cancellati e/o spostati durante questo periodo di crisi. Iniziamo da Arianna Porcelli Safanov.

Nel 2008 è nato il tuo progetto di racconti tristocomici: come è nata l’idea?
Dovevo trovare un titolo. Avevo bisogno di qualcosa che facesse intendere che non è nelle mie intenzioni fare della comicità spettacolare, quella alla quale siamo abituati qui in Italia. Non volevo fare del cabaret o ricercare per forza la risata. Quello che da tempo avevo scritto e che ho provato a adattare per il live è un repertorio di monologhi tristissimi. Proprio per far passare questo messaggio di profondo sconforto, ho inserito dentro quello che è il mio metodo non solo di lavoro, ma anche di approccio alla vita. è un tipo di comicità che vuol essere più simile alla satira: c’è del cinismo, si cerca di fare delle battute che poi provochino delle riflessioni intellettualmente utili.

Teatro comico missionario: cosa intendi? Cosa vorresti combattere e cosa dobbiamo ritrovare?
“Missione”, proprio dal punto di vista etimologico, è la necessità di diffondersi di qualcosa laddove c’è un problema. Si tratta di evangelizzare. I problemi da risolvere sono un po’ davanti a noi: c’è chi ci si abbandona. Ed è normale, quando uno è stanco, mal retribuito, insoddisfatto. Ci sono i vizi legati alle sostanze: bevi, ti droghi, mangi oltremodo e tanti altri. Poi ci sono i vizi intellettuali, ossia abbandonarsi alla ricerca di contenuti, che ci distraggano, spengano il cervello e atrofizzino i muscoli, pur di non farci sentire meno il peso della vita. Invece la necessità, secondo me sempre più urgente, è quella di tornare alle radici culturali proprie del nostro paese, che sono potentissime. E che, in questo momento, stanno andando…a puttane.

In particolare, in questo momento critico, cosa può fare la cultura?
La cultura, come al solito, proprio come i veri missionari, si deve proporre gratuitamente: è l’unica maniera che abbiamo in questo momento di diffondere il nostro lavoro. In molti lo stanno facendo, sia persone che istituzioni, come biblioteche e musei, che si organizzano per diffondere i loro archivi. Io nel mio piccolo sto facendo delle dirette sui social (SATURDAY NIGHT FEVER, su Instagram e Facebook, il sabato sera alle 21), cercando di aiutare chi non è abituato a starsene a casa a trovare quantomeno dell’intrattenimento costruttivo, sempre per tornare al discorso dei vizi. La cosa che più mi stupisce di questo periodo è che io dal 2014, sostanzialmente, vivo in posto piccolo: è normale per me stare chiusa in casa per dei giorni, senza uscire, senza incontrare nessuno. Invece c’è gente che soffre: la cultura arriva proprio lì. Dove c’è una sofferenza che non si cura dal dottore. Per fortuna, visto gli ospedali sono imballati. Ma è una sofferenza che ha il suo peso e ha delle contro-indicazioni che si riflettono sulla nostra psiche, sul nostro metodo di lavorare e tornare alla vita normale (se ci torneremo).

Il tuo riding fa parte della rassegna “Le ragazze raccontano. Di cosa devono ridere e quindi incazzarsi, le ragazze, ascoltandoti leggere?
Penso che l’incazzatura non dovrebbe essere di genere, ma riguardare tutti. Ogni genere ha il suo motivo per incazzarsi. Ecco, diciamo così le cose per cui una ragazza deve incazzarsi sono ormai sulla bocca di tutti. Probabilmente il contesto che io trovo grave, che va tenuto sotto controllo, è quello degli educatori. Io posso essere più emancipata di tutte le donne nord-europee sulla faccia delle terra, ma nel momento in cui si diventa un genitore (sempre che questo venga, perché si è liberi di non diventarlo, per fortuna) devo stare attenta a quello che sono i retaggi. Almeno, io parlo per me, ma ne soffriamo particolarmente. Tutte le generazioni ne soffrono. Noi donne abbiamo questo retaggio, purtroppo. Io non sono genitore ma mi ci ficco in questo discorso, perché si ha sempre a che fare con me con questa fascia d’età. Ecco, bisogna insegnare loro che non ci sono dei comportamenti che sono adeguati o meno. Un esempio stupido è questo diluvio di rosa che affligge tutti i capi di abbigliamento per bambine. Se si va in qualsiasi negozio, c’è il reparto per i maschietti con le loro fregnacce. E poi, nel reparto femminile, un’esplosione di paillettes, di tulle, di ROSA, che, purtroppo, le mamme per prime incentivano. Basta con ‘sto rosa! Esistono anche altri pantaloni! Questo è un esempio scemo che poi ovviamente accende dinamiche più serie.

Io ti ringrazio per il tuo tempo, spero che questa clausura sia la meno dolorosa possibile e di rivederci presto a Milano. Ti auguro buona fortuna e speriamo che almeno ci sia un po’ di sole in queste giornate.
No, ma va bene il tempo di merda. Almeno non ci viene voglia di uscire! Grazie a voi, ci vediamo presto!

Intervista raccolta da Irene Raschellà

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